Si sono appena concluse le premiazioni del prestigioso Sony World Photography Awards, il più vasto e importante premio internazionale, edizione 2025. Il titolo di Fotografo dell’Anno è andato all’autore inglese Zed Nelson, per il suo progetto The Anthropocene Illusion, indagine che approfondisce l’artificialità del rapporto che gli esseri umani hanno instaurato con la natura e con la sperimentazione illusoria e fittizia che abbiamo con essa nei parchi naturali, nelle riserve, nei musei, negli zoo. Il suo lavoro, durato sei anni, è stato scelto tra i dieci premiati nelle categorie Professional del contest ed è ora esposto, con tutti i vincitori e i nominati, alla Somerset House, fino al 5 maggio. Ho incontrato Zed Nelson all’inaugurazione della mostra, ecco cosa mi ha raccontato.
Come e quando ti è venuta l’idea di questo approfondimento?
L’idea è nata più di dieci anni fa. Mi trovavo nell’estremo nord della Norvegia e avevo un pomeriggio libero, così ho visitato un posto chiamato Polaria, che si descrive come un “Centro di esperienza artica e acquario”. Qui ho visto una foca barbuta in un ambiente artificiale al chiuso, sdraiata su rocce di vetroresina decorate con ghiaccio finto, sotto un’illuminazione artificiale, accanto a una vasca d’acqua. Questa struttura si trovava vicino alla costa, non lontano dall’Artico, vicino a quello che sarebbe stato l’habitat naturale di quell’animale. Mi sono chiesto perché fosse tenuta in simili condizioni per essere osservata dai turisti in un ambiente completamente artificiale. Questa scena mi ha ossessionato.
In seguito, ho scritto alla direzione della struttura lamentando l’ingiustizia di tenere l’animale in queste condizioni al chiuso, e questo ha dato il via a un dialogo con il direttore dell’acquario e, in seguito, alla genesi del mio progetto L’illusione dell’Antropocene.
È stato ispirato anche dal fatto che stiamo vivendo una crisi ambientale, ovvero la continua distruzione industriale del mondo naturale e il riscaldamento globale. Mi sono chiesto come avrei potuto produrre un lavoro su questo tema urgente. Volevo affrontare l’argomento da un punto di vista nuovo, perché ci sono stati molti importanti lavori di fotografia documentaria sull’ambiente e non volevo ripeterli. Così ho iniziato a considerare l’aspetto psicologico di come noi, come specie, devastiamo il mondo naturale e allo stesso tempo desideriamo un legame con esso.
Volevo realizzare un lavoro che ci interrogasse sul nostro rapporto umano con il mondo naturale. C’è qualcosa di contraddittorio in quello che facciamo, una disconnessione psicologica che può essere descritta come dissonanza cognitiva. Una consapevolezza, ma anche una negazione intenzionale. Il progetto esplora l’idea che, mentre ci separiamo dal mondo naturale, creiamo versioni artificiali o coreografiche della natura per nascondere a noi stessi ciò che stiamo realmente facendo.
Tu investighi la società contemporanea, che cosa hai scoperto fotografandola?
Hai ragione, questo progetto esplora in modo specifico la società contemporanea. Esamina un fenomeno unico per la nostra specie in questo momento della nostra evoluzione. Gli scienziati sostengono che siamo entrati in una nuova epoca, a causa dell’impatto accelerato dell’attività umana sull’ecosfera. Di solito le epoche si misurano in milioni di anni e una nuova inizia dopo un evento che sconvolge il mondo, come ad esempio l’impatto di una cometa sulla terra, che ha scatenato un’era glaciale e l’estinzione di massa dei dinosauri. Ma oggi molti scienziati sostengono che dovremmo dichiarare una nuova epoca, chiamata Antropocene – l’età dell’uomo. Essi ritengono che negli ultimi duecento anni, diciamo dall’inizio della Rivoluzione Industriale, l’impatto umano sulla Terra sia di una portata che sarà misurabile dai futuri geologi molto tempo dopo la nostra scomparsa.

Negli strati di roccia che si formano oggi sotto i nostri piedi, gli strati sedimentari riveleranno le prove di un impatto umano senza precedenti sul nostro pianeta. I geologi del futuro troveranno isotopi radioattivi provenienti da esperimenti di bombe nucleari, enormi concentrazioni di plastica, la ricaduta della combustione di combustibili fossili e vasti depositi di cemento usato per costruire le nostre città.
Siamo dunque destinati all’estinzione? Che cosa possiamo davvero fare per cambiare le cose, secondo te?
Come specie, in futuro potremmo essere minacciati di estinzione. Abbiamo uno stile di vita rapace e non viviamo più in modo rispettoso o in armonia con l’ambiente e il nostro fragile ecosistema che sostiene la vita. Siamo le creature più distruttive della terra. La società giudaico-cristiana ha introdotto una visione del mondo che ha reso le persone meno inclini a preoccuparsi dell’ambiente, perché ha promosso gli esseri umani come superiori e separati dalla natura. Con il risultato che essi – noi – sono diventati la causa principale della devastazione ecologica. Il nostro futuro come specie dipende da una nuova e urgente valutazione del rapporto dell’umanità con il mondo naturale. Abbiamo divorziato dalla natura, eppure, ironia della sorte, desideriamo una connessione con ciò a cui abbiamo voltato le spalle.
Circondarci di ricreazioni simulate della natura crea paradossalmente monumenti inconsapevoli a ciò che abbiamo perso. Per invertire la rotta ci vorrà un cambio di paradigma nelle nostre priorità e nella nostra empatia. Non basta sentirsi in colpa e riciclare i cartoni del latte: è a livello industriale e politico che deve avvenire il cambiamento. Abbiamo già un elenco di idee utili: habitat naturali protetti, rewilding, pratiche agricole sostenibili, trattamento etico degli animali, energie rinnovabili, riduzione delle emissioni di gas serra e dell’inquinamento da plastica. Sappiamo cosa si può fare. Dobbiamo solo trovare leader politici e capitani d’industria che vogliano farlo.
Gli esseri umani vivono una relazione finta con il mondo naturale, un artificio che non soddisfa. Ci convinciamo che basti, ma non è così. Pensi che questo approccio sia pericoloso?
Ci siamo separati dalla terra che un tempo percorrevamo, e dagli altri animali. Ma da qualche parte, nel profondo di noi stessi, il desiderio di contatto con la natura rimane. Così, mentre distruggiamo il mondo naturale che ci circonda, siamo diventati maestri di un’esperienza scenica e artificiale della natura, uno spettacolo rassicurante, un’illusione. Il pericolo è che stiamo creando una realtà alternativa curata e confortante per mascherare il nostro impatto devastante sul mondo naturale. Siamo impegnati in un progetto di grande auto-illusione.
Per quale ragione scegli di dedicarti sempre a progetti a lungo termine? È una scelta dettata dai tuoi stessi bisogni?
Ci vuole tempo per produrre un lavoro valido e interessante, e lavorare su un progetto nel tempo consente di approfondire la riflessione e l’impegno su questioni complesse. Ci vuole tempo anche per trovare i fondi per un progetto a lungo termine. Per me questo significa cercare sovvenzioni e lavorare duramente per guadagnare il denaro necessario a sostenerlo. Lavoro in questo modo perché è nella mia natura. Mi piacciono anche gli incarichi in cui devo rispondere rapidamente a un argomento e consegnare il lavoro in tempi brevi e intensi. Ma sullo sfondo mi piace avere un progetto a lungo termine che si sta sviluppando, qualcosa che finirà per diventare un libro o una mostra. Qualcosa con maggiore profondità e investimento di pensiero.
Il tuo modo di raccontare ciò che vedi o che vuoi sottolineare è sempre concettuale? Questo genere fotografico nasce dal mondo della pubblicità, dalla necessità di condensare un’idea o un messaggio in uno scatto…
La fotografia è stata sfruttata dall’industria pubblicitaria come strumento molto utile ed efficace. Ma non è un mezzo di proprietà dell’industria. Mi piace usare lo stesso mezzo per mettere in discussione e contraddire i valori e le idee promosse dall’industria pubblicitaria. Non mi interessa troppo cercare di condensare un’idea o un messaggio in un’unica immagine. Questo può essere un requisito per un manifesto pubblicitario, ma non per me. Mi piace l’interazione tra immagini e testo e la giustapposizione delle immagini.

Nel mio lavoro possono esserci singole immagini potenti, che trasmettono un messaggio forte e risonante, e se possibile le cerco. Ma non è la mia priorità. La fotografia può focalizzare la nostra attenzione in modo molto efficace, ma non credo che dovremmo feticizzare le immagini singole. Più immagini costruiscono una storia, a volte in poche immagini, a volte in un intero libro. Mi piace lavorare su temi e concetti, quindi si potrebbe definire il mio lavoro concettuale. Mi interessa esplorare la società contemporanea. Spesso esploro aree della vita e della cultura umana in cui siamo talmente immersi da essere diventati ciechi. Il mio lavoro è guidato da un interesse critico per l’intersezione tra il capitalismo moderno e la psicologia umana, cercando di capire come si formano le nostre azioni e i nostri comportamenti. Perché facciamo quello che facciamo.
Ho letto che hai iniziato la tua carriera come fotogiornalista. Quando e perché è avvenuto il cambiamento verso lo stile estetico che hai oggi?
Ho iniziato come fotografo documentarista e fotogiornalista. Ero attratto dal tentativo di capire e raccontare storie su questioni serie. Ho viaggiato e lavorato in Somalia, Angola, Afghanistan, El Salvador. Ognuno di questi Paesi era collegato dalla geopolitica della Guerra Fredda. Mentre lottavo per dare un senso alle storie complesse e alle ragioni dei conflitti di cui ero testimone in questi luoghi, ho cercato di sviluppare un mio linguaggio visivo, un modo di raccontare una storia in modo coinvolgente e avvincente. Non è stato facile e a volte ho fallito.
In Afghanistan, il mio collega giornalista e il mio interprete sono stati entrambi colpiti e gravemente feriti quando l’auto su cui viaggiavamo è stata bersagliata da colpi di mitragliatrice. Questo terribile incidente ha segnato un cambiamento nel mio lavoro. Avevo cercato di capire perché tutte le armi in questi conflitti fossero russe o americane, e avevo lentamente compreso che queste armi erano state fornite da governi stranieri in cerca di influenza e controllo. Ora ho deciso di cambiare approccio e di concentrarmi sulla fonte di queste armi, riflettendo sui problemi e sulle faglie della società occidentale. Volevo anche lavorare su un progetto a lungo termine, in cui potessi seguire le mie regole. Ho iniziato a lavorare su quello che sarebbe diventato il mio primo libro, Gun Nation, un progetto che esplorava il paradosso per cui il più potente simbolo di libertà dell’America è anche uno dei suoi più grandi assassini.
Ero diventato sempre più consapevole dei limiti di un approccio documentaristico strettamente tradizionale. Sembra che se il modo in cui leggiamo le immagini diventa troppo familiare, queste possono perdere il loro potere. Il linguaggio della fotografia documentaria classica era diventato stantio per me. Discostandomi dal tipico stile documentario tradizionale, ho cercato di estendere il linguaggio tradizionale della fotografia documentaria, impiegando una varietà di strategie e tecniche fotografiche all’interno della serie: ritratto, paesaggio, still-life attentamente osservato e reportage documentario. Ho utilizzato la fotografia di reportage in 35 mm, mescolata a ritratti formali di medio formato e a dettagli di still-life con illuminazione in studio. Non avevo mai visto un fotografo combinare questi stili in un unico progetto, ma è diventato subito uno strumento vitale per me: usare le giustapposizioni per creare tensione e mostrare le contraddizioni.
Pensi che ci sia ancora molto del tuo approccio giornalistico iniziale nei progetti che oggi ti portano in finale ai maggiori premi internazionali?
Penso di sì. Tutte le nostre esperienze ci portano in una direzione, e ogni esperienza diventa un trampolino di lancio per condurci in un posto nuovo. Quindi tutto ciò che ho fatto forma la cosa successiva che faccio. Ogni esperienza mi ha portato a un nuovo pensiero, a un’ispirazione o mi ha spinto a voler comunicare qualcosa.
Secondo te, Zed, qual è il più importante problema del nostro tempo?
La distruzione degli habitat naturali di altri animali è un crimine contro la natura. Avviene attraverso l’espansione umana, l’agricoltura, il disboscamento, l’estrazione mineraria e l’inquinamento.
Posso chiederti quali altri autori, colleghi, ti hanno maggiormente influenzato per arrivare al tuo stile?
Adoro John Berger come scrittore. Ho utilizzato alcune citazioni dei suoi scritti nel mio nuovo libro. Da studente ammiravo il lavoro dei fotografi inglesi Don McCullin e Chris Killip. Amo il lavoro di Diane Arbus e August Sander. Il lavoro di Joel Sternfeld mi ha influenzato molto. Più recentemente ho apprezzato il lavoro di Luigi Ghirri.
La mostra dei progetti vincitori ai Sony Awards sarà in Italia dall’11 giugno a fine settembre, nella sede del Museo Diocesano di Milano e da me curata.
Il libro The Anthropocene Illusion di Zed Nelson sarà pubblicato da Guest Editions il prossimo maggio.