3 Gennaio 2020 di giorgia Avatar

La vita e la carriera di Marilyn Stafford sono state influenzate dagli incontri fortuiti che ha avuto nella Parigi del dopoguerra con alcune delle persone più famose del Ventesimo secolo e con alcuni leggendari fotografi Magnum.

L’intervista a Marilyn Stafford

Quando hai conosciuto Einstein, era la prima volta che fotografavi e usavi una fotocamera mai provata prima. Deve aver intuito che eri nervosa, vero?
Be’, non sono sicura che mi abbia prestato molta attenzione. Per come mi ricordo, siamo arrivati a casa sua, ci ha aperto la porta, era vestito in modo informale, come si vede nell’immagine. Eravamo solo il regista, il produttore e io. Era la prima volta che usavo una reflex 35 mm (avevo sempre usato una Rollei) ed ero concentrata principalmente sul portare a casa gli scatti. Ricordo che Einstein ci ha accolti in un grande soggiorno, che hanno allestito la zona dove l’avrebbero filmato. E poi ricordo il regista che parlava con lui mentre montava le luci. Io ero come estraniata da tutto, e mettevo a fuoco. Giravano su pellicola 16 mm e a un certo punto Einstein ha chiesto al regista qualcosa di molto specifico sulla velocità della pellicola al secondo. Il regista gli ha risposto, lui ha annuito e dopo una breve riflessione ha detto “Grazie, adesso capisco” – e mi ha stesa. L’intervista registrata è stata molto tranquilla, ma Einstein è stato estremamente deciso nel chiarire che non credeva nell’uso di armi atomiche, proprio come speravano i miei amici. Erano passati pochi anni da Hiroshima e Nagasaki; era il 1948 e lui era, credo, ancora devastato.

Albert Einstein 1948. Foto realizzata durante la prima sessione di Marilyn che, superato il nervosismo, si è concentrata sul “portare a casa gli scatti” ed è stata premiata da questo risultato caldo e personale.


Forse anche disilluso?
Oh, ne sono sicura, anche se non posso certo parlare per lui, ma credo che nel filmato lo abbia anche dichiarato. In pubblico ha poi sempre avuto posizioni molto forti contro la guerra atomica. Non ho pensato a una carriera in fotografia fino a molti anni dopo, quando ho fatto visita a un amico a Parigi e ho deciso di fermarmi. Per caso, ho conosciuto Henri Cartier-Bresson. Quello è stato il mio vero punto di svolta: è diventato il mio mentore e scattavamo spesso insieme per le strade di Parigi.
Non ci sono molti fotografi che possano dire di aver avuto Henri Cartier-Bresson come loro mentore…
Assolutamente, sono stata molto fortunata. E ho conosciuto anche Bob Capa.
Erano personaggi molto diversi. Come hai incontrato Capa?
Devo fare un passo indietro… Ero andata a New York per lavorare in teatro, ma poi sono partita per Parigi. Mentre ero lì, sono andata a una festa di compleanno; eravamo tutti presi a cantare “Happy birthday” quando un agente mi ha avvicinata e mi ha chiesto se volessi fare un provino per cantare con un complesso in un club chiamato Chez Carrère. Ho accettato e poi ho avuto il lavoro. Il club era davvero chic, è stato l’unico in cui l’allora principessa Elisabetta ha avuto il permesso di andare nel suo primo viaggio in Francia, per dire il livello! Chez Carrère aveva anche un delizioso piccolo bar e tavoli per chi non voleva cenare, ma solo bere qualcosa, e lì ho incontrato Robert Capa. Veniva praticamente tutte le sere con uno o due amici e ci siamo conosciuti così, abbiamo cominciato a parlare e abbiamo fatto amicizia.
Cos’hai imparato da Capa?
Be’, con lui non discutevo di fotografia, eravamo solo amici. Era un uomo molto carismatico e io ero colpita dal lavoro che aveva fatto. È stato solo quando ho avuto problemi alle corde vocali e ho dovuto smettere di cantare che gli ho parlato di fotografia e gli ho detto che pensavo di ritrarre bambini. Potevo forse guadagnarmi da vivere così, anche perché l’avevo già fatto a New York. Mi ha detto: “Assolutamente no. I francesi non amano essere fotografati, preferiscono la pittura, almeno per quanto riguarda i ritratti”. A quell’epoca avevano appena fondato la Magnum e il suo socio David Seymour, un altro dei fondatori, stava cercando un assistente, così mi ha proposto di provarci. Ho rifiutato perché non me la sentivo di affrontare le zone di guerra. Pochi anni dopo sono stati uccisi entrambi…

Henri Cartier-Bresson, Parigi 1950. Il maestro al lavoro al Grand Palais durante una mostra di elettrodomestici. «È stato il mio mentore e mi invitava spesso ad accompagnarlo quando usciva per fotografare», ricorda Marilyn.


E Cartier-Bresson?
Cartier era molto diverso. Non aveva lo stesso tipo di carisma di Capa. Era un uomo molto calmo e tranquillo. L’ho conosciuto tramite amici che frequentavano la sua famiglia. All’epoca era sposato con una ballerina indonesiana, Ratna Mohini, ed ero spesso invitata a cena da loro, era un’amicizia di famiglia. Era un uomo molto gentile, davvero. Mi permetteva di accompagnarlo quando fotografava, così ho potuto vedere come lavorava. Io ero molto bassa e lui molto alto e quando uscivamo insieme attiravo molta attenzione… Lui indossava un impermeabile, un cappello gli copriva la faccia, teneva la fotocamera davanti al viso. Io ero piccola, donna e con un’enorme Rolleiflex per le strade di Parigi, dove dopo la guerra la gente faticava a trovare il cibo, figuriamoci le fotocamere. In un certo buffo modo, gli servivo per distogliere l’attenzione da lui, ma ho potuto vederlo all’opera e in alcuni casi è stato incredibile.
Hai incontrato molti personaggi famosi del Ventesimo secolo, ma c’è qualcuno che avresti davvero voluto fotografare? 
Rovescio la domanda, nel senso che penso che se sei un fotografo devi pensare come un fotografo, cioè fare foto. Nei miei primi tempi a Parigi non pensavo ancora come una fotografa. Quando ancora cantavo, ho visto passare molte persone importanti dal club. Forse perché sono americana, venivo spesso invitata ai loro tavoli, volevano sapere cosa ci facesse questa giovane donna in Francia. Una sera, è venuta Eleanor Roosevelt con uno dei figli e un’attrice americana chiamata Marsha Hunt con il marito. Hanno cenato e mi hanno invitata al loro tavolo. Abbiamo passato un po’ di tempo chiacchierando e sul momento non ho pensato nemmeno una volta “Scatta una fotografia di Eleanor Roosevelt!”, sono stata così stupida! È il mio unico vero grande rimpianto, perché di tante donne che rispetto e ammiro… lei era una filantropa, una giornalista, una grande sostenitrice dei diritti umani, civili, delle donne, degli afroamericani e delle minoranze. È stata presidentessa della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, ha contribuito a scrivere la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. È una donna che dovrebbe essere più conosciuta e onorata e rimpiango davvero molto di non avere un suo ritratto.

Montmartre, Parigi 1950. La modella indossa uno dei primi abiti prêt-à-porter. In quegli anni, Marylin ha reinventato la fotografia di moda.

Trovi l’intervista completa a Marilyn Stafford nel numero 94 di NPhotography (qui in versione digitale).

 

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