Tino Stefanini
Ho fotografato Tino Stefanini in un momento speciale della sua vita. Domenica 8 settembre, giorno del nostro incontro, ha concluso definitivamente la sua detenzione, che tra prigione, semilibertà e domiciliari è durata cinquant’anni.
Tino è uno dei tre superstiti della famigerata banda Vallanzasca, insieme a Osvaldo Monopoli e Renato.
Negli anni Settanta hanno messo a ferro e fuoco Milano e la loro batteria era considerata la più pericolosa d‘Italia.
Inizia la sua carriera criminale da minorenne, rapinando e rubando auto; a vent’anni è già un bandito professionista. Quando entra in carcere da maggiorenne, ci trova tutta l’élite della criminalità milanese, compreso Renato. Dietro le sbarre si rafforzano amicizie e progetti. Pian piano evadono tutti, per poi ritrovarsi nella sua zona, la Comasina. Qui nasce ufficialmente la banda Vallanzasca.
Rapine in banca, sequestri, scontri a fuoco con la polizia e le bande rivali (Turatello, Flachi e Coco Trovato).
«Nella vita normale siamo sempre state brave persone, educate e disponibili. Nel quartiere difendevamo i più deboli, aiutavamo economicamente chi aveva bisogno, durante le rapine non ce la prendevamo mai con la clientela o con chi lavorava nella banca. Non esiste più quella criminalità romantica di allora, io non potrei mai appartenere a quella di oggi. Manca il rispetto e la dignità, per me picchiare una donna o truffare un anziano è qualcosa di inaccettabile. Io facevo il criminale contro le istituzioni, rapinavo dove c’erano i soldi veri.»
«Penso di essere diventato un criminale per una sorta di ribellione quasi inconscia verso le differenze sociali che vedevo in Comasina. Chi aveva troppo e chi niente. La mia è stata una forma di lotta contro il sistema, ma senza una vera consapevolezza. Non sono un brigatista o uno dei NAR, non sono né di destra, né di sinistra. Nella criminalità ho trovato una strada diversa rispetto a quella imposta dall’alto, che consideravo ingiusta.»
«Ho girato una quarantina di carceri in Italia, di cui cinque speciali. Solo in due ho trovato una funzione rieducativa finalizzata al reinserimento nella società: sull’isola della Gorgona e a Bollate. In tutti gli altri no. E infatti le percentuali parlano chiaro. Chi esce da Bollate ritorna a delinquere nel 17% dei casi, altrove nel 75%. Nel carcere sei represso, sempre in attrito con le guardie, abbandonato a te stesso. Il peggiore di tutti fu quello speciale dell’Asinara. Dalla turca del gabinetto entravano i topi in cella, dovevamo chiudere il buco con una bottiglia. C’erano scorpioni, salamandre e cervi volanti. Si faceva un’ora e mezza d’aria al giorno con una rete sopra la testa. Si mangiava poco e da schifo. Scrissi al Corriere della Sera chiedendo la pena di morte perché non sarei sopravvissuto in quel posto. Per fortuna dopo la rivolta dei detenuti mi hanno trasferito»
«Se tornassi indietro non rifarei questa vita. Nonostante non abbia rimpianti, ho perso troppo: la famiglia, l’amore, realizzare qualcosa di costruttivo. Mi è mancato il fatto di risparmiare per andare al mare, per la settimana bianca, con la moglie e i figli. Noi facevamo soldi in fretta e li bruciavamo per cose futili: macchine, case, locali, vestiti, donne. Non davamo l’importanza al denaro come chi fa una vita normale.»
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Esercizio a tema: Il ritratto