12 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Edward Weston. Danza lo sguardo, nel circolare ritmare di questa inquadratura. Danza senza sosta, come irretito nell’incessante fluire di linee che, ora sinuose, ora spezzate da repentine deviazioni, sembrano quasi rifiutarsi di imprimere una forma definitiva a quella nudità così plateale, ma anche così naturale e primitiva. Non c’è voluttà nelle morbide consistenze che compongono i volumi di questo corpo, non c’è ostentazione, eppure, più lo si osserva, più la sua cruda fisicità sembra ammantarsi di un’involontaria sensualità. Le sue forme, armoniosamente scomposte, affiorano dalla sabbia quasi fossero cesellate dalla mano di un abile scultore. Sono forme essenziali, pure, che sembrano emergere dal caos dell’indistinto proprio grazie all’intervento di quella mano capace che le ha modellate, separandole per sempre dalla materia impalpabile che le ha custodite, inespresse, fino a quel momento. Forme inconfondibili, la cui genesi, così descritta, rimanda inevitabilmente a un noto racconto biblico, ma anche all’idea primigenia di femminilità. Ma è davvero questo ciò che vuole mostrarci Weston? Difficile dirlo, tuttavia tutto ciò che sappiamo di lui e del suo percorso di ricerca in ambito fotografico sembra ben supportare una lettura in questo senso. Egli si serviva della fotografia per catturare la «vera sostanza» delle cose, la loro essenza ultima, a prescindere dalla loro natura esteriore, e a prescindere che la sua estrema volontà di realismo si traducesse talvolta in pura astrazione. Non è allora solo un corpo femminile quello che vediamo, ma il corpo femminile. Tutto il resto è lasciato a noi, alla nostra libera interpretazione

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