2 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Assorto e distante, quasi vacuo. Potremmo definirlo così questo sguardo e, forse, per quanto difficile dovremmo limitarci a osservarlo nel contesto in cui è inserito, senza la pretesa di carpire alcunché della personalità di chi lo indossa. Sebbene protagonista del ritratto, non è questo bambino della tribù Hamer il fulcro della narrazione, né il suo sguardo. Steve McCurry lo ritrae in questo modo per parlarci, attraverso una sorta di metonimia visiva, di quelle tribù etiopi pressoché sconosciute – come gli Hamer – che popolano le sponde del fiume Omo, conservando tradizioni e rituali antichi. Popolazioni che credono, come molte altre in Africa, nell’esistenza di forze soprannaturali e di spiriti maligni; entità demoniache per proteggersi dalle quali ricorrono a pratiche rituali spesso feroci. Una di queste è l’uccisione dei bambini mingi, ovvero bambini considerati impuri, posseduti, quindi non meritevoli di vita. McCurry ci porta su questa poco rassicurante via interpretativa attraverso una serie di espedienti compositivi e di elementi simbolici che, tuttavia, necessitano di qualche conoscenza in più per essere riconosciuti – come la polvere calcarea con cui gli Hamer sono soliti cospargersi per allontanare questi demoni. La troviamo sulla fronte del bambino e sulla spalla dell’uomo che incombe al suo fianco e, forse, anche su ciò che ci cela la sfocatura. È da questi elementi che dobbiamo partire per leggere questa immagine. Solo così, infatti, quello sguardo enigmatico da cui siamo partiti acquista, forse, senso.
Testo di  Stefania Biamonti
 

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