18 Ottobre 2019 di Vanessa Avatar

Larry Fink è uno di quegli autori da cui non si può prescindere se si vuole capire la storia della fotografia contemporanea. Nasce nel quartiere di Brooklyn (New York) nel 1941 in una famiglia che fa politica militante con un’impronta fortemente progressista. Le sue prime foto le scatta a dodici anni con una macchina fotografica che gli regala il padre. Ne ha diciassette quando incontra un gruppo di ragazzi che sta vivendo il momento di passaggio tra l’epoca beat e la nuova rivoluzione culturale giovanile che travolgerà gli anni Sessanta. Inizia a frequentarli, divenendo il cantore della loro vita volutamente ai margini della società. Già in quelle prime foto emergono quelle che saranno le sue caratteristiche più importanti di reporter: la capacità di entrare in empatia con i soggetti che ritrae e uno sguardo sulla realtà che ha a che fare più con la filosofia che con il fotogiornalismo. Due attitudini che renderanno sempre i suoi servizi, anche quelli realizzati per le grandi riviste glamour, qualcosa di più di semplici lavori su commissione.

Intervista a Larry Fink

Come ti descriveresti come fotografo? «Sono essenzialmente un fotografo umanista. Mi piace raccontare storie. Non sono un mero autore di immagini di gossip neppure quando fotografo un party di gente famosa. Infatti, il gossip ha a che fare con il momento. Mi piace pensare, e spero che sia così, che le fotografie che realizzo abbiano, invece, qualche relazione con il destino e forse con l’eternità».

Fotografi spesso eventi. Che cosa ti attira in particolare di una festa? «Ho cominciato a realizzare immagini di eventi perché ero interessato a come la gente si relaziona con gli altri in quelle occasioni. Come fotografo, quando sei a una festa, puoi osservare le persone. E spesso durante un party la gente è molto naturale. Uno stato mentale che mi interessa molto. Cerco sempre in queste situazioni di scattare foto alla gente mantenendo una certa distanza per catturare quella naturalezza».

Che cosa cerchi quando ritrai i volti di chi partecipa a un evento? «Cerco l’energia che emerge quando ci sono degli scambi tra persone. Quando fotografo durante un party, voglio, in fin dei conti, aumentare la mia comprensione della realtà. Cerco di catturare l’emozione fisica che la realtà mi presenta. Infatti, considero la fotografia come uno strumento filosofico per aumentare e approfondire la mia conoscenza del mondo».

Come reagisce la gente quando ti vede? «Ho sempre cercato di non turbare nessuno con la mia presenza mentre lavoro. Mantengo sempre un comportamento assolutamente corretto. Ritengo che il fatto di essere un fotoreporter non significhi avere il diritto divino di entrare con prepotenza nella vita delle persone. È una visione invasiva e imperialista di certi autori che non condivido».

Qual è la storia di The Vanities: Hollywood Parties 2000-2009, un progetto che ti ha reso molto famoso? «Ho cominciato a fotografare i party di Hollywood per la rivista Vanity Fair. Come spesso accade, è diventato successivamente un progetto personale. In realtà, ogni lavoro su commissione della mia vita è stato l’inizio – o parte – di qualcuno dei miei progetti personali. Da questo punto di vista mi ritengo un fotografo fortunato perché ho sempre condotto le mie ricerche mentre realizzavo dei commissionati, senza nessuna contrarietà o lamentela da parte dei clienti».

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