24 Dicembre 2018 di Vanessa Avatar

Paolo Pellegrin usa la fotografia per indagare nei fatti e raccontare le storie degli uomini

Ha testimoniato i conflitti e le vicende umane più drammatiche degli ultimi decenni con immagini potenti, fatte di bianco e neri densi e vibranti e composizioni dinamiche. Visioni in cui il respiro lungo della fotografia riesce a cogliere l’eco dei fatti nella storia.

Paolo Pellegrin documenta guerre, pandemie, crisi e conflitti sociali a diverse latitudini

La notizia è solo l’incipit del suo lavoro. «Ho sempre voluto usare la fotografia per indagare nei fatti e raccontare le storie degli uomini, osservare le vicende nella loro complessità e comprenderle nel più ampio contesto sociale e politico, dando a esse una forma». Paolo Pellegrin spiega così le ragioni che, nella seconda metà degli anni Ottanta, lo hanno convinto ad abbandonare gli studi di architettura per avventurarsi in quelli di fotografia. Dopo le prime esperienze come assistente e alcuni progetti personali, vola a Parigi. Qui entra nello staff dell’agenzia Vu’ che lascia nel 2001 per entrare nella Magnum Photos, diventandone membro effettivo nel 2005. Sono anni di lavoro intenso in cui documenta guerre, pandemie, crisi e conflitti sociali a diverse latitudini: Serbia, Kosovo, Romania, Afghanistan, Cisgiordania, Iraq, Libano, Palestina. In Uganda realizza un progetto sull’Aids premiato al World Press Photo nel 1995; sarà il primo di una lunga serie di successi che lo riconosceranno tra i più influenti reporter contemporanei. La sua capacità di armonizzare il dovere della testimonianza con un linguaggio vigoroso ha lasciato il segno nell’ultima stagione del grande reportage su pellicola. Il suo stile è fin da subito immediatamente riconoscibile, con i suoi bianco e neri cupi e contrastati, immagini mosse e sfocate, inquadrature ardite, orizzonti precari e frame affollati di elementi che entrano ed escono dai margini della scena, mantenendo una sorta di continuità con ciò che resta all’esterno. Scelte di stile che, a prima vista, accusano un “eccesso di bellezza”, dissonante con il contesto rappresentato. In realtà, Pellegrin dirà che la sua è «(…) una consapevole rinuncia all’esibizione della sofferenza per far posto a un elemento di armonia, una forma di attenzione e di rispetto verso gli uomini e la loro capacità di reagire alle sciagure, mettendo in campo tutte le risorse in loro possesso». In questo equilibrio dinamico di forma e contenuto, nella tensione tra dovere di cronaca e necessità di cogliere l’elemento umano della storia, l’istante sembra dilatarsi, come se l’intera sequenza dei fatti che attraversa il suo sguardo si sovrapponesse in un unico fotogramma.  Ne risultano immagini drammaticamente sontuose, quasi teatrali, che con il tempo diventano più misurate, mature e asciutte, frutto di un lavoro “per sottrazione” che trattiene nella scena solo gli elementi essenziali, distillati con cura. Dopo anni di reportage impegnato in bianco e nero, Pellegrin comincia a utilizzare il colore e a fotografare anche in contesti più “leggeri”, come la moda e il ritratto di celebrities, senza mai abbandonare la sua vocazione per l’attualità. Una transizione in cui mantiene intatto il suo stile compositivo e l’uso magistrale della luce che da sempre contraddistinguono la sua visione.

Immagine in evidenza

Alcuni civili scavano tra i detriti alla ricerca di sopravvissuti dopo un attacco aereo israeliano. Beirut, Libano, 2006

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