15 Settembre 2019 di Vanessa Avatar

Sergio Scabar ha fatto della fotografia uno strumento di riflessione e d’indagine. Autodidatta, è divenuto noto al panorama artistico grazie all’originalità de Il Teatro delle cose del 1999 – lavoro che ha segnato il suo stile votato a una ricerca poetica incentrata sull’essenzialità degli oggetti e delle loro forme –. La mostra, inaugurata lo scorso 28 giugno al Palazzo Attems Petzenstein di Gorizia e presentata alla libreria MiCamera di Milano, si compone di trecento scatti che seguono l’andamento cronologico del suo lavoro diviso in due grandi fasi: la prima, più vicina al genere del reportage, la seconda, più riflessiva e sperimentale avviata negli anni Novanta che ha definito la cifra stilistica dell’autore. Il suo reportage è segnato da una particolare sensibilità di sguardo nel creare sistemi seriali d’immagini dove, al contrario di una documentazione classica, la camera rimane fissa e sono gli oggetti e le persone a muoversi dinnanzi a essa. Negli anni a cavallo tra lo scorso e l’attuale secolo, in un’evoluzione della staticità che aveva sperimentato nei lavori precedenti, la natura morta diventa l’asse portante della sua produzione, riprodotta attraverso una particolare tecnica di ripresa detta ‘alchemica’ che gli consente di ottenere tonalità opache e scure che sono diventate ben presto il suo inconfondibile tratto distintivo.

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