2 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

La notte e la strada erano il suo tempio, la morte la sua musa, il flash il suo più fedele alleato. Ribelle, sicuro di sé e perennemente a caccia di scoop, aveva fatto delle disgrazie e degli omicidi i suoi soggetti d’elezione, sostenendo in più di un’occasione, non senza un pizzico di cinica ironia, che questi ultimi erano i più facili da fotografare perché i soggetti non si muovevano mai, non si agitavano. Weegee è stato sicuramente un fotografo tanto leggendario quanto controverso, ma affermarsi nel campo della cronaca nera nella New York a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta non era certo cosa per animi sensibili o di specchiata moralità. La sua ascesa professionale coincise infatti con il periodo culminante della Murder Inc., la gang ebrea di Brownsville che forniva sicari a pagamento al Syndacate, l’associazione newyorkese di boss della malavita, soprattutto italiani, che non esitava a regolare i propri conti per le strade della città, già duramente provata dagli effetti della crisi del 1929. Violenza e omicidi erano all’ordine del giorno e per battere sul tempo la vivace concorrenza dell’epoca occorreva essere talentuosi, scaltri, pronti a sporcarsi le mani; qualità che Weegee sembrava incarnare alla perfezione. Grazie ai felici rapporti instaurati con la polizia locale – ma anche con alcuni gangster di alto livello, come Bugsy Siegel, Lucky Luciano e Legs Diamond – egli riusciva a essere sempre nel posto giusto al momento giusto, arrivando talvolta sulla scena del crimine persino prima della stessa polizia. Ciò gli dava il tempo di ispezionare con attenzione il luogo del delitto e di trovare l’angolazione migliore per realizzare quelle foto che divennero poi, da un lato, fonte d’ispirazione per il filone cinematografico del noir, dall’altro, un punto di riferimento imprescindibile nella fotografia di cronaca, nonché l’anticamera di quello che verrà in seguito definito giornalismo da tabloid. Quello di Weegee era infatti uno stile aggressivo, votato al sensazionalismo e connotato da un approccio altamente soggettivo e da un «rozzo realismo, rafforzato da una tendenza all’allestimento espressionista» – come scrive Marianne Bieger- Thielemann in Fotografia del XX secolo (Taschen, 1997) – che faceva delle prospettive azzardate e degli effetti drammatici restituiti dal flash il suo punto di forza. Le sue foto (e i suoi testi) erano veri e propri pugni nello stomaco studiati appositamente per un pubblico di basso profilo culturale. Un’estetica nuova, dai toni volutamente gridati e priva di spessore concettuale, ben diversa dunque da quella proposta dai grandi documentaristi dell’epoca, come Dorothea Lange, Walker Evans o Berenice Abbott. Una fotografia d’assalto, volutamente non impegnata, in grado però di mostrarci oggi come allora il volto più cruento della Grande Mela negli anni della Depressione.

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