9 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Raffinato interprete della fotografia italiana, Fulvio Roiter, il famoso autore veneziano, attraverso i suoi scatti, ci ha insegnato il valore della bellezza.
“Fotografare significa creare delle immagini che, staccate dalla realtà da cui trassero origine, mostrino nel breve spazio della loro superficie una realtà nuova conclusa nei limiti dell’inquadratura”. Con queste parole Fulvio Roiter, narratore errante di storie dell’Italia e del mondo, nel libro Visibilia , chiariva il suo pensiero riguardo l’autonomia estetica della fotografia. Negli anni Cinquanta, infatti, le diverse posizioni sul tema presero la forma di un vivo dibattito, iniziato un decennio prima, quando nel 1943 il gruppo editoriale Domus pubblicò l’annuario Fotografia. Prima rassegna dell’attività fotografica in Italia  a cura di Ermanno Federico Scopinich, Alfredo Ornano e Albe Steiner. In quegli stessi turbolenti anni, Roiter mosse i suoi primi passi nel mondo della fotografia abbracciando quella che in quel momento era l’estetica dominante volta a documentare la condizione sociale ed economica del Paese attraverso indagini di carattere antropologico e certamente influenzate dall’esperienza neorealista. Era il 1949 e, appena trasferitosi a Venezia da Meolo, piccolo paese della provincia veneta, Roiter ebbe i primi contatti con l’ambiente fotografico aderendo al Circolo Fotografico La Gondola su invito di Paolo Monti, uno dei più illustri fondatori, nonché suo amico e collega. Il decennio degli anni Cinquanta in Italia fu un periodo fondamentale per lo sviluppo della fotografia come espressione finalmente autonoma da altre forme artistiche, ma soprattutto per il consolidamento delle basi formali del linguaggio fotografico italiano – fu un momento di forte dibattito all’interno dei circoli fotografici –. Tuttavia passarono alcuni anni dall’incontro di Roiter con la macchina fotografica alla sua personale presa di coscienza nel voler fare della produzione di immagini una vera e propria professione. «Arrivò così il 1953 – ricordava l’autore in Visibilia  –. Mio padre diventava sempre meno tollerante e mi pose un aut aut a breve scadenza: o me ne tornavo alla chimica oppure la mia passione per la fotografia doveva diventare redditizia. Ero a un bivio. Chiesi un’ultima chance: di offrirmi il minimo dei mezzi e di lasciarmi andare in Sicilia. Percorrendo l’isola in bicicletta con la macchina fotografica al collo, lontano dalla realtà del mio villaggio, Meolo, vicino a Venezia, avrei scoperto in modo definitivo se la mia vocazione di fotografo fosse autentica e valida». E così fu, tanto che nella sua personale biografia la Sicilia fu il punto di partenza della sua carriera. In quel suo primo viaggio, a cui ne seguirono moltissimi altri in Italia e in tutto il mondo, Roiter documentò il volto più fragile e selvaggio della candida bellezza della Magna Grecia. Il viaggio siciliano rappresentò l’occasione della sua vita, il punto di non ritorno per dimostrare di poter vivere di fotografia. Al rientro, Roiter sviluppò una ricerca fotografica d’inedita freschezza. All’interno della Gondola, l’autore si distinse per un particolare accento formalista che, a quel tempo, caratterizzava lo stile espressivo di un altro importante, e più anziano, circolo fotografico milanese chiamato La Bussola guidato da Giuseppe Cavalli e che trovava nel pensiero estetico di Benedetto Croce il proprio punto di riferimento. Lo stesso Paolo Monti non nascose, in un suo intervento nell’allora rivista Ferrania, una certa influenza del circolo milanese nello stile dei membri della Gondola che «ascoltata la lezione estetica della Bussola, si diedero a modi espressivi quanto mai diversi, anche in conseguenza del continuo studio dei massimi fotografi stranieri, specialmente europei».

Fulvio Roiter: la Serenissima ha rappresentato il campo di ricerca privilegiato dove trovò la sua identità artistica, facendo rinascere la città lagunare in un immaginario inconsueto e coinvolgente

Nella sua lunga carriera Fulvio Roiter non riuscì sin da subito a raccogliere quell’unanime riconoscimento che in seguito sia la critica che il pubblico gli accreditarono. In questo lasso di tempo, l’autore spinse il suo sguardo oltre i confini nazionali, scoprendo nel viaggio un’esperienza per gli occhi e per l’anima, ma anche un’occasione di incontro con esotiche culture. La sua macchina fotografica e la sua curiosità lo spinsero a New Orleans, in Belgio, in Portogallo e in Andalusia dove riscoprì e reinterpretò il colore a fianco del bianco e nero. Fu subito dopo la permanenza spagnola che Roiter decise di compiere in Brasile il viaggio che lui stesso definì «uno spartiacque fra tutto quello che è avvenuto prima e dopo nella mia vita». A questo seguirono moltissime altre esplorazioni nelle più varie regioni del mondo come la Persia, la Turchia, il Messico, il Libano fino all’Africa e alla Costa D’Avorio, ma, nonostante tutto, il fulcro, il cuore e l’anima del suo lavoro fu sempre per la sua amata Venezia, la città che per prima lo invitò a guardare il mondo attraverso un mirino. La Serenissima ha rappresentato il campo di ricerca privilegiato dove trovò la sua identità artistica, facendo rinascere la città lagunare in un immaginario inconsueto e coinvolgente. Il suo capolavoro, nonché uno dei libri fotografici più importanti della storia della fotografia italiana di quegli anni, è, senza dubbio, Venise à fleur d’eau  del 1954 a cui seguì Essere Venezia  del 1977 grazie al quale, oltre che consacrarlo a un pubblico internazionale, gli permise di vincere il Grand Prinx ai Rencontres de la Photographie di Arles.

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