31 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Tutto comincia in quel quartiere milanese di Brera e in particolare nel mitico Bar Jamaica, luogo di ritrovo per artisti e intellettuali che cercavano, negli anni tra la ricostruzione postbellica e i primi anni del boom economico, di uscire dal provincialismo culturale derivante dal ventennio fascista prima e da una fase ormai esaurita del neorealismo dopo. Fotograficamente autodidatta, Uliano Lucas comincia a fotografare volti e ambienti di questo mondo eterogeneo, in cui aspetti di vita bohémienne, a volte al limite della povertà, si mischiano a folgoranti successi che avrebbero segnato il destino di molti importanti artisti e intellettuali. Se questi ritratti, che Lucas avrebbe continuato a eseguire anche nei decenni successivi, costituiscono la prima fase di formazione della sua personalità di fotografo, è a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta che Lucas sposta il suo interesse verso la società in cambiamento: il mondo del lavoro e i conflitti di classe caratterizzano sempre più la società italiana in un crescendo che per un decennio infiammerà, nel bene e nel male, il nostro Paese. Lucas ne diventa un testimone importante: alcune sue fotografie sono diventate icone, e come tali facilmente riconoscibili, di quegli anni: dalla fotografia dell’emigrante meridionale con le valigie di cartone davanti al grattacielo Pirelli (1968) a quella dell’assalto della polizia all’Università Statale di Milano (1971), da quelle sulle manifestazioni operaie e studentesche a quelle sulla violenza degli anni di piombo della seconda metà degli anni Settanta. Ma sarebbe sbagliato identificare la lunga e complessa attività di Lucas in queste sue fotografie molto note; nel corso di più di cinquanta anni di attività il suo percorso si è articolato in molte altre direzioni: dai reportage che lo hanno portato in molti Paesi del terzo mondo alla condizione degli immigrati in Europa, fino all’attenzione verso la condizione dei lavoratori in un paese come l’Italia ricco di profonde contraddizioni, una potenza industriale in veloce trasformazione, con la fabbrica totalizzante che cede il passo alla fabbrica diffusa, alla piccola impresa, con grandi città che si trasformano in aree metropolitane post-industriali, centri di terziario avanzato. E poi ancora la sua attenzione verso alcuni aspetti del paesaggio e verso la gente comune, che non si stanca di fotografare quasi sempre secondo il metodo del ritratto ambientato che deve documentare, informare e, in ultima analisi, raccontare la società. Questo pare essere in definitiva il complesso percorso di Lucas, fotografo giornalista, narratore con occhio da sociologo, in rapporto dialettico con il mondo delle redazioni, lontano da compromessi e a volte coinvolto direttamente in qualità di photoeditor in esperienze redazionali.

Uliano Lucas: un linguaggio fotografico scevro da abbellimenti formali

Il suo linguaggio fotografico è scevro da abbellimenti formali, è secco, ricorre a una metodologia classica da fotografia diretta: se nei ritratti di persone famose o in alcuni dettagli del paesaggio si concede qualche attenzione alla scelta della luce, dell’inquadratura, della messa in forma, nel resto della sua produzione, pur nel necessario ed elevato rigore formale, si avverte che la sua preoccupazione principale è quella della documentazione. Guardando una sua fotografia si dovrebbe immediatamente dare risposta alle famose domande giornalistiche: chi, cosa, quando, dove e perché; Lucas non allude, non si serve del simbolo, testimonia con la forza del realismo che diventa il motivo dominante del suo linguaggio, in sintonia con la tradizione giornalistica che mette al primo posto i fatti. E questi fatti sono perseguiti da lui con l’antica vocazione del reporter che va in giro e a tutto si interessa e che tutto fotografa, perché la società che si trasforma, e che la fotografia tenta di documentare, si può cogliere nei grandi avvenimenti di respiro internazionale e nei dettagli di una abitazione, nel volto e nei vestiti di un operaio o di un immigrato, alla mensa di una fabbrica, nell’aula di una scuola, nel laboratorio di un artigiano. Occorre aggiungere, a scanso di equivoci, che alla luce delle riflessioni ormai decennali sui problemi dell’informazione, sappiamo che i cosiddetti fatti o dati reali, che dir si voglia, non sono propriamente degli elementi di inoppugnabile oggettività, bensì il risultato di scelte complesse che vanno dall’uso strumentale dell’informazione alla sensibilità e alla cultura di chi li raccoglie e di chi li propone, e a tante altre variabili che formano un lungo elenco: a noi piace ancora coltivare l’idea che una fotografia fatta al mercato del pesce, tanto per dire, stia fornendo elementi visivi relativi a quella situazione e non alle invadenti simbologie e concettualismi di tanta fotografia contemporanea

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