Articolo a cura della Prof.ssa Maria Grazia Ciani
Mimmo Jodice: il fotografo dell’antico
“La splendente” è il titolo di un libro di Cesare Sinatti, giovane filosofo laureato a Bologna, – pubblicato nel gennaio 2018 da Feltrinelli. “La splendente” è Elena di Troia. Ho acquistato questo bel saggio per il soggetto, naturalmente, ma ciò che mi ha attratto a prima vista è stata la foto di copertina, nella quale ho riconosciuto la “mano” di Mimmo Jodice: che considero il maggiore, anzi l’unico “fotografo dell’antico”. Torneremo a questa immagine più tardi, dopo aver dato almeno una traccia della vita e dell’arte di Jodice.
Mimmo Jodice nasce a Napoli, rione Sanità, nel 1934 e a Napoli passa tutta la sua vita (salvo le puntate all’estero per mostre , convegni ecc.). “Qui sono nato e ho scelto di vivere, qui ho elaborato tutte le mie esperienze di uomo e di fotografo”. Ha un’infanzia difficile, un’adolescenza inquieta. Perde il padre nel 1939. Finite le scuole elementari, è costretto a lavorare. Prenderà la licenza media come privatista. Pratica disegno e pittura come autodidatta e nel 1964 inizia a occuparsi di fotografia. Nel ’67 vince il primo premio a un concorso nazionale, del ’68 è la sua prima mostra personale al Palazzo Ducale di Urbino. Coltiva molte conoscenze, ha contatti con Allen Ginsberg, Domenico Rea, Fernanda Pivano, Andy Warhol, Jannis Kounellis ecc. Nel 1970 è docente presso l’Accademia di Belle arti di Napoli: è la prima cattedra di fotografia attiva in Italia, la terrà fino al 1994. Il punto di svolta della sua poetica risale al 1980 con le “Vedute di Napoli”. Lavora con gli architetti Vittorio Gregotti e Gae Aulenti. I fotografi a lui più vicini sono Luigi Ghirri , Gabriele Basilico e Ferdinando Scianna. Pubblica libri ed espone in tutto il mondo (S.Francisco, N:York, Parigi, Arles, Philadelphia, Boston, Mosca).
Mimmo Jodice: uno dei maggiori fotografi esistenti a livello internazionale.
Per dare un’idea del suo metodo fotografico e dell’evoluzione della sua ideologia artistica, facciamo un confronto con l’arte di Cartier-Bresson, fotografo famosissimo con il quale Jodice afferma di non sentire affinità alcuna. Come del resto con tutti i fotografi da “scoop”, quelli che sanno cogliere, peraltro con grandissima maestria, il MOMENTO , L’ISTANTE DECISIVO. “Non ho mai pensato di realizzare fotografie per caso cogliendo il famoso attimo irripetibile. La teoria dell’istante è lontana dalle mie ideologie. Cogliere l’immagine al volo per me è una prova di VIRTUOSISMO che non rientra nelle mie attitudini” (M.J.) Jodice invece innanzi tutto osserva. Osserva e medita. Legge. Il suo messaggio fotografico ha una struttura linguistica che dall’esterno rinvia all’interno, dalla superficie alla profondità, all’infinitamente altro che si può dedurre se , invece di limitarsi a “vedere”, ci si “perde a guardare”. Perdersi a guardare. Nella sua lectio magistralis del 16 novembre 2006 tenuta presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli, Fernando Pessoa pronunciò una frase che colpì moltissimo Jodice. “C’è una frase di Fernando Pessoa che ripeto spesso perché mi rappresenta:- Ma che cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare?- Ecco la mia inclinazione naturale: perdermi a guardare, contemplare, immaginare, cercare visioni oltre la realtà…” (M.J.). Jodice ha uno sguardo lento e ha in sé , come egli stesso dice apertamente, il bisogno di contemplare e fantasticare, qualità che oggi si vanno perdendo sempre di più, nella fretta di afferrare la realtà delle cose per passare oltre e accumulare testimonianze e informazioni. In Jodice, la fotografia diventa un autentico saggio in cui confluiscono tutte le espressioni dell’arte del passato, “immenso serbatoio di emozione e riflessione. Non si può non partire dalla storia delle cose create dai grandi maestri che ci hanno preceduto. Bisogna lavorare sulla base di una conoscenza profonda dell’eredità artistica ricevuta” (M.J.).Date queste premesse, si comprende come anche la tecnica lavorativa di Jodice rimanga saldamente ancorata alla camera oscura, elemento basilare dell’attività dell’artista. “Non so cosa sia il digitale” (M.J.). Le possibilità espressive offerte dal lavoro manuale in camera oscura sono – pur nella loro diversità – paragonabili al lavorio del pittore che mescola i colori sulla tavolozza per creare la sfumatura di sua personale invenzione – o del letterato che cesella le frasi con l’orecchio sempre teso all’allusione antica e alla lenta ma costante trasformazione del linguaggio. E non è un caso che gli esordi di Jodice siano rivolti alla pittura e che con la pittura ed i pittori egli mantenga sempre stretti rapporti . La camera oscura permette di : frammentare l’immagine e ricomporla; adoperare i procedimenti noti con il nome di : polarizzazione, solarizzazione, sgranatura, sovrapposizione, sovraimpressione, viraggi, movimento in fase di stampa, collages. Sono appunto tecniche che permettono a Jodice quasi di dipingere mentre stampa il negativo. A ciò si deve aggiungere l’uso della luce, che costituisce forse il più grande contributo di Jodice. Un uso assoluto, potente che si aggiunge alle altre molteplici possibilità del lavoro manuale in camera oscura. Nel suo insieme , la formazione di Jodice, per la molteplicità e varietà di contatti con personalità famose, per la sua naturale disposizione e avidità di apprendere continuamente e riflettere a lungo sulla realtà della cose, può essere definita ibrida. Felicemente ibrida, tuttavia ibrida. Di qui la sua continua e spietata autoanalisi e la tendenza a recuperare sempre la profondità partendo dalla superficie.
Mimmo Jodice: due sono le svolte fondamentali della sua carriera, Napoli e Mediterraneo
Due sono le svolte fondamentali della sua carriera e portano i nomi di due realtà universalmente note e famose e tuttavia, per varie ragioni, misteriose e insondabili: Napoli e Mediterraneo. Napoli, si è detto, è “la” città di Jodice. Più che la città, è la sua mente, il suo cuore, la sua scuola. Di Napoli ci darà i capolavori più noti e gli aspetti meno noti, le meraviglie del Museo di Capodimonte e quel che resta del Real Albergo dei Poveri, dove aleggia l’orrore delle spoglie abbandonate nei campi di concentramento. L’amore per la pittura e l’interesse per il sociale , portano Jodice a una realizzazione inedita e stupefacente: “Fotografando i volti delle persone ritratte, ho sottratto le loro fisionomie dal contesto pittorico, riportandole in vita, e le ho confrontate con i volti dei passanti che ho incontrato e immortalato per le strade di Napoli… In questo modo si è creato un cortocircuito temporale tra il passato e il presente…”(M.J.). Presente, passato. Il confronto è impressionante. Si arriva talvolta a confondere il ritratto fotografato con la fotografia reale. Si scoprono affinità inattese: il taglio della bocca, l’espressione degli occhi. Il presente si specchia nel passato, il passato si riflette e rivive nel presente. L’obiettivo, invece di guardare dal di fuori, si trova a guardare dal di dentro.
L’attrazione di Jodice verso il passato si fa sempre più intensa, grazie anche all’amicizia con Georges Vellet, archeologo e Accademico di Francia. Il passato è dovunque, a Napoli e Jodice inizia a “studiare” le vestigia dell’antico isolando i luoghi, riscoprendo i frammenti, facendo vibrare nella “sua” luce le antiche rovine richiamate a vivere indipendentemente dalla presenza umana, in una sorta di straniamento alla De Chirico (o Magritte o Carrà), in un vuoto metafisico in cui tuttavia si avverte, ritrovata, la presenza degli dei.
Le rovine. Le statue. Il medesimo fuoco che anima nascostamente le mute e solitarie rovine, divampa nelle statue, nelle quali Jodice porta al limite esterno la vibrazione della vita rinchiusa nel marmo o nel bronzo, richiamando le componenti della creazione, il trionfo, la tensione, la paura, l’angoscia, il dolore, il mistero. Il culmine di questo processo di autoanalisi che porta Jodice sempre più lontano, lontano dalla realtà, verso il mondo dei miti, è senza dubbio Mediterraneo, dove architettura e statuaria sembrano risorgere come Venere dal mare, il mare che restituisce una storia di rara potenza e di profondi significati, una storia, con cui l’uomo moderno ha ormai perduto i contatti. Neanche la parola, il sacro logos , preziosa eredità dell’antico, riesce a competere con la violenza creativa delle foto di Jodice: il quale rielabora, rimaneggia, interpreta, dipinge e “riscrive” per immagini la vita di una civiltà che non ha mai cessato, neanche nei momenti di oblio, di influenzare nascostamente la nostra storia moderna. Ecco perché nella preziosa edizione del teatro di Euripide , edita da Einaudi nel 2002 per la cura di Anna Beltrametti, con la traduzione storica di Filippo Maria Pontani, si avverte talvolta lo scarto tra la parola pietrificata nell’immobilità della versione e “la forza evocativa degli scatti” , quelle maschere stupefatte in cui la tensione è al limite della parola, del grido, della violenza, volti che mandano lampi sotto la luce incantata del Maestro. Volti che raccontano di imprese mirabili, di eventi tragici, di indomabile coraggio, di sfida e smisurato orgoglio, di paziente sopportazione. Volti che ci ricordano la nostra stessa storia nell’arco dei sentimenti che il tempo non ha mai potuto mutare. Jodice confessa di aver molto lavorato su questi volti, utilizzando la luce e l’ombra, mettendo in risalto alcuni elementi, puntando soprattutto sullo sguardo, su quegli occhi per i quali gli antichi usavano materiali differenti, dal vetro alle pietre preziose per cui essi mandano ancora il loro messaggio attraverso i secoli. Ed è questo messaggio che Jodice coglie e valorizza, non “con gli occhi dello studioso, ma con lo sguardo di un abitante del loro tempo. Non ho svolto un’indagine scientifica , da museo archeologico, che non mi spettava. Il mio approccio è come un sogno…” (M.J.). Un sogno: simile a quello che gli antichi definivano con il nome intraducibile di thambos, lo stupore davanti a una rivelazione, la meraviglia che paralizza e poi riscuote, rimuovendo le sensazioni logorate dal tempo e dalla lontananza. Alle foto scelte per il volume einaudiano ho voluto aggiungere altre immagini sul tema degli “atleti”, dove, in particolare, “le ombre contribuiscono a creare una situazione di dinamismo e di slancio che fa sì che loro rivivano e io mi trovi con loro duemila anni fa” (M.J.). E ancora altri esempi dove lo sguardo di Jodice assume il valore di un “ora per allora”: come in questa Alba Fucens gravemente mutilata, che ci parla con l’unico occhio rimasto, si impone per la postura eretta, mentre il residuo del mantello sulla spalla sinistra sembra un dito levato a giudicare e ammonire. Quanto all’Auriga di Atene, certo ricorda il gruppo degli atleti, ma lo sguardo, la bocca, i capelli, la forza che emana dalla posizione del collo, tutto l’insieme produce l’effetto di una scossa elettrica che proviene da lontananze infinite, un messaggio in bottiglia ripescato dopo secoli, che ci avverte: siamo stati. Ma non solo, perché lo sguardo di Jodice aggiunge a sua volta: ci siamo ancora. Ma il soggetto più arduo, meno compreso anche dagli esperti, è quello degli dei. Il dio a misura d’uomo, che cammina accanto all’uomo, lo perseguita e lo protegge, lo ama e lo distrugge. Chi sono questi dei che , dopo tanti secoli, sono riusciti a conservare il loro mistero?
Ares (collezione Ludovisi): i giochi di luce e di ombre conferiscono spessore e rotondità alle forme .danno rilievo alle mani che stringono l’elsa della spada. L’insieme rinvia a una forza e insieme a una rilassatezza priva di qualsiasi timore e consapevole della propria potenza .
Atena (1993). Anche questa immagine è giocata sul contrasto luce/ombra. Ma lo splendore dell’elmo, il volto svelato a metà, le labbra appena dischiuse, senza particolare espressione, l’occhio che guarda nel vuoto – danno alla dea un aspetto ambiguo, inafferrabile, qualcosa di androgino e ambivalente alla figlia nata dal cervello di Zeus. L’onda di luce che investe l’elmo, gli occhi ciechi rivolti verso l’alto ci parlano di qualcosa che non riusciamo ad afferrare, ma che Jodice intuisce istintivamente . Atena viene da un mondo altro, Atena è sola con se stessa e il segreto della sua nascita.
Apollo. E’ opinione comune che le divinità antiche abbiano due volti, l’uno oscuro e l’altro chiaro, a seconda delle loro scelte e inclinazioni. Fra tutti Apollo , simbolo ed emblema della suprema bellezza, è colto da Jodice nel risvolto opposto, quello che porta in sé inganno, vendetta, terrore. Sempre con gioco di luci e ombre ecco le chiome scomposte, l’occhio velato, il naso pronunciato come una minaccia, le labbra oscurate da insani propositi. E le cicatrici, opera del tempo, qui sono marcate, incise , tracce immaginarie di scontri cruenti, esiti feroci di un carattere spietato. Una lontanissima anticipazione della Mensur così ambita dalla gioventù germanica, segno indelebile di una virilità orgogliosa e spavalda.
Ma Jodice fotografa anche l’altro volto di Apollo, quello del dio che suona la cetra e infonde serenità e gioia fra gli uomini. Ed ecco l’Apollo Ludovisi, colto in pieno volto con la mano appoggiata sullo strumento musicale più nobile, ecco l’Apollo gentile che si dispone ad allietare riunioni e conviti con le melodie più nobili e dolci. Eppure. A parte il corpo possente e la capigliatura ondeggiante, c’è anche in questa immagine qualcosa di ambiguo: gli occhi inespressivi che guardano senza vedere, il naso pronunciato, le labbra serrate con durezza, e la mano che non sembra appoggiata ma artigliata alla cetra come a un’arma…
La poesia di Costantino Kavafis
Ritorna allora alla mente una poesia di Costantino Kavafis, a dire il vero poco conosciuta e tuttavia assai significativa nel suo crudele risvolto: il titolo è Slealtà:
Quando si celebrarono le nozze
Di Teti e Peleo, alla sontuosa mensa
Si levò Apollo, ed esaltò gli sposi
Per il virgulto che sarebbe nato
Da quell’unione. Disse: “ Non sarà
Sfiorato mai dai morbi. Avrà una vita
Lunga”. S’allegrò Teti: le parole
D’Apollo, ch’era esperto in profezie,
le sonarono come garanzia per il figlio.
E come Achille si faceva grande, ed era
La sua bellezza gloria di Tessaglia,
Teti serbava in cuore le parole del dio.
Ma un giorno certi vecchi recarono notizie.
Dissero: “Achille è stato ucciso a Troia”.
Teti faceva scempio delle vesti di porpora,
si strappava le armille, gli anelli
e li scagliava al suolo. E, fra i lamenti,
le sovvenne il passato. E domandò
cosa faceva Apollo, il dio sapiente,
e dov’era il poeta, che ai conviti diceva
tante belle parole, e dov’era il profeta
mentre nel fiore dell’età le uccidevano il figlio.
I vecchi le risposero che Apollo
Era disceso di persona a Troia
E aveva ucciso, coi Troiani, Achille.
Il metodo rigorosamente artigianale, l’ideologia dello sguardo lento, della riflessione, dell’immaginazione spinta oltre i limiti del visibile- , danno all’”antico” fotografato da Jodice uno spessore e un’espressività che non si verifica in altri casi. La sua mano si rivela al primo istante. Ma, appunto, è la “sua” mano: il risultato di una ricerca interiore, il riflesso di una elaborazione personale. Un’interpretazione, un “saggio” fotografico. Lo sguardo di Jodice sfida l’utente dell’opera, quello che Roland Barthes definisce lo Spectator. Io che guardo sono irretito, incantato, ma anche in parte sviato da ciò che Jodice mi impone di vedere.Per finire, torniamo al principio. La misteriosa “splendente” dell’immagine di copertina del libro di Sinatti è una dea: Demetra, da Ercolano. E, quasi a conferma di ciò che abbiamo osservato in relazione agli dei, ritroviamo anche in questo ritratto, lo sguardo sfuggente e impenetrabile, mentre lo sfregio maschera una bocca ambigua, a metà tra la parola e il silenzio. Anch’essi, come tutti gli altri personaggi della storia e del mito, sono ancora tra noi.
Jodice: tornare a guardare
Jodice, abbiamo detto, non ama l’improvvisazione, lo scatto che ferma l’”attimo fuggente”. Si considera l’antitesi di Cartier-Bresson e si può dire che per tutta la sua carriera si è attenuto a questo principio, salvo rare eccezioni. Anche dove la fotografia è frutto di un istante colto al volo, il risultato finale è comunque frutto di una meditazione da rielaborare in camera oscura. Nel 1978 Jodice coglie questi due ragazzi in corsa: sono i suoi figli. Il frutto di questo scatto è finalizzato a una considerazione sul colore che – a suo dire – “definisce il tempo e lo spazio, mentre il bianco e nero contribuisce a creare un’atmosfera sospesa, atemporale”… “i miei figli passano da una dimensione di realtà a una di sogno e sospensione” (M.J.). E’ un pensiero astratto, avulso dal contesto da cui prende avvio. Ma l’imprevisto, molti anni dopo, si riverbera su questa immagine e ci induce a darle un significato diverso. Il più giovane dei due figli di Jodice, Sebastiano, regista di professione, muore prematuramente il 3 novembre 2016 , a 45 anni. Nella foto scattata e rielaborata dal padre il “bianco e nero” assume un significato metafisico, diventa l’ombra presaga di un passaggio dalla realtà viva a uno spazio indefinito e sconosciuto. Un passaggio fatale, che non è più un sogno.
Alcuni riferimenti:
Mimmo Jodice, Napoli sospesa, Roma 1988
Mimmo Jodice, I percorsi della meloria, testi di G.Vallet e F.Lefevre, Roma 1990
Mediterranean, Mimmo Jodice Photographs, testi dii George Hersey e Predrag Matvejevic, Aperture Foundation 1995, ed. it. Art & Udine 1995
Mimmo Jodice – Predrag Matvejevic, Isolario mediterraneo, Federico Motta ed., 2000
Mimmo Jodice, Perdersi a guardare, testi di A.Mauro , F.Prose, R.Valtorta, Contrasto 2007
Roberta Valtorta, Mimmo Jodice, Bruno Mondadori 2013
Mimmo Jodice con Isabella Pedicini, La camera incantata, Contrasto 2013
Mimmo Jodice, Arcipelago del mondo antico, Skira 2014
Cesare Sinatti, La splendente, Feltrinelli 2018
Si ringrazia la Prof.ssa Maria Grazia Ciani per questo prezioso contributo