Iniziamo oggi una nuova rubrica dedicata alla gestione del colore nel workflow del fotografo, dalla calibrazione del monitor alla stampa. Maestro d’eccezione, l’Ambassador EIZO Marco Olivotto, che cercherà di mettere un po’ d’ordine all’interno di un argomento complesso ma di fondamentale importanza…
Numeri come parole: la matematica delle percezioni
È necessario partire da un punto fondamentale: un’immagine digitale è costituita da numeri che un software legge e interpreta, rappresentandoli a monitor. Parlare di “interpretazione” è corretto, perché possiamo dare un significato preciso a qualcosa soltanto se sappiamo quale lingua stiamo parlando. Prendiamo a titolo di esempio la parola pain: significa “pane” in francese, ma “dolore” in inglese. In sostanza, se non specifichiamo la lingua, il significato del termine rimane semplicemente indefinito! Lo stesso vale per i colori. Nel comune metodo colore RGB, un colore è espresso da una terna di numeri, e ciascuna componente della terna è di norma espressa per mezzo di un numero intero compreso tra 0 e 255. Le componenti indicano l’intensità della sorgente di luce a cui si riferiscono: rosso, verde e blu rispettivamente. Variando le intensità relative degli illuminanti si generano sfumature diverse di colore. A titolo di esempio, consideriamo la terna 92R 121G 187B: non possiamo dire con certezza a quale colore corrisponda, perché non abbiamo specificato di quale RGB stiamo parlando.
La figura 1 mostra l’aspetto di questa identica terna in quattro diverse varianti di RGB: da sinistra, sRGB, Adobe RGB, ProPhoto RGB e lo spazio colore del monitor di un Apple MacBook Pro. I numeri non variano, ma l’aspetto del colore che definiscono è diverso di volta in volta! E ciò accade perché nell’esempio utilizziamo spazi colore diversi: è come se esprimessimo la parola pain in lingue diverse. Gli spazi colore RGB, in realtà, sono più assimilabili a dialetti che a lingue: possiamo considerarli come varianti di un modello generale, genericamente chiamato “RGB”, che prende il nome di “Metodo colore” e, come vedremo, non è di per sé uno spazio colore.
Metodo, spazio, profilo, gamut: le cose da sapere
Il metodo colore RGB si basa su una semplice osservazione: quando sovrapponiamo luci di colori diversi, percepiamo nuovi colori. Il metodo si basa su un modello che descrive le interazioni degli “illuminanti” e non ha nulla a che fare, ad esempio, con quelle d’inchiostri o pigmenti. A monte di tutto, quindi, c’è un metodo colore: RGB è il più comune, ma non è l’unico. Quando contestualizziamo un metodo colore, specificando parametri a priori indefiniti come le caratteristiche degli illuminanti (in particolare, la loro cromaticità), definiamo uno spazio colore. Lo spazio colore è un’entità astratta: possiamo pensarlo come una tavolozza che mette a disposizione un certo numero di colori. Per descriverlo, utilizziamo un “profilo colore” (nome ufficiale: “profilo ICC”), ossia una serie di dati che definiscono forma e caratteristiche della tavolozza. Infine, se misuriamo l’estensione di uno spazio colore, otteniamo il suo gamut, che ci permette di sapere quali siano i colori disponibili. Se un colore cade fuori dal gamut di un certo spazio colore, viene chiamato “colore fuori gamut” in quello spazio.
La figura 2 mostra il gamut di uno spazio colore CMYK che descrive determinate condizioni di stampa offset (un metodo di stampa commerciale nel quale l’inchiostro viene trasferito dalla lastra di stampa a un rullo di gomma e poi alla carta). Il volume colorato rappresenta l’insieme dei colori stampabili in quelle determinate condizioni: se le modifichiamo (per esempio, se cambiamo tipo di carta o inchiostri), il volume si modifica. Il “fantasma” che lo circonda è invece uno spazio colore RGB ben noto ai fotografi: Adobe RGB. I tre quadratini colorati indicano la posizione dei primari rosso, verde e blu di questo spazio. Si nota come questi cadano all’esterno dello spazio colore CMYK: il blu e il verde, in particolare, in maniera drammatica! Questi colori (e molti altri) non saranno riproducibili in stampa offset fino a che saremo vincolati alla sola quadricromia, e verranno dunque riprodotti diversamente a causa di varie approssimazioni. Sono, appunto, colori fuori gamut nello spazio di destinazione che abbiamo a disposizione per la stampa.
Gli spazi standard
I primi tre spazi colore di figura 1 (sRGB, Adobe RGB, ProPhoto RGB) sono detti “standard” e dal punto di vista concettuale sono diversi dal quarto, che è invece lo spazio colore di un dispositivo. I tre spazi standard sono ordinati per estensione crescente: sRGB è il più piccolo, Adobe RGB è quello intermedio, mentre ProPhoto RGB è il più grande. Questo significa, ad esempio, che ProPhoto RGB conterrà colori che Adobe RGB e sRGB non sono in grado di riprodurre, e offrirà pertanto una tavolozza più estesa. Se vogliamo invece descrivere lo spazio colore di un monitor dobbiamo misurarne la risposta, così come misuriamo una stanza per conoscerne forma e dimensioni. La misura si effettua con un colorimetro, o in alternativa con uno spettrofotometro: il principio di funzionamento dei due strumenti è diverso, ma entrambi misurano determinate caratteristiche della luce che li colpisce. Le misure, opportunamente elaborate, vengono utilizzate per creare il profilo colore che descrive lo spazio colore del monitor. I profili colore di questo tipo sono chiamati device-dependent, ossia dipendenti da un dispositivo; gli spazi standard sono invece device-independent, ossia indipendenti da un dispositivo.
Gli spazi standard, infatti, non derivano da misure: sono costruiti a tavolino, per mezzo di calcoli matematici. sRGB, ad esempio, venne elaborato da Hewlett-Packard più di vent’anni fa per descrivere il comportamento medio dei vecchi monitor a tubo catodico, ma non descriveva né descrive oggi alcun monitor specifico. È pertanto errato affermare che un certo monitor “è sRGB” oppure “è Adobe RGB”: si può semmai dire che lo spazio colore di quel monitor è assimilabile entro certi limiti a sRGB o ad Adobe RGB. In altri termini, non sarà identico ma neppure radicalmente diverso. Gli spazi standard definiscono dialetti ai quali chiunque può riferirsi. Se non esistessero, ciascuno parlerebbe a modo proprio, rendendosi potenzialmente incomprensibile agli altri! Vale anche la pena di ricordare che lo spazio colore di un monitor è evanescente e privo d’importanza per chi non usa quello specifico monitor, e va rivalutato periodicamente quando si modificano le impostazioni del dispositivo, o semplicemente a causa del degrado delle prestazioni legate al suo invecchiamento.
Un monitor “calibrato” serve a poco… senza profilazione
Troppo spesso si legge l’espressione “monitor calibrato”: non significa granché, perché la calibrazione è semplicemente l’impostazione di determinati parametri, più o meno assimilabile all’impostazione della tara su una bilancia. Impostare la tara su una bilancia è importante per evitare errori sistematici nelle pesate, ma non la rende uno strumento migliore in senso assoluto. Allo stesso modo, un monitor può essere impostato in modo da avere un certo punto di bianco più caldo o più freddo, definito da una temperatura di colore espressa in Kelvin; oppure in modo da avere maggiore o minore luminanza (il “bianco” appare più o meno brillante). Questa prima fase, e solo questa, è detta calibrazione.
A questa impostazione deve seguire la misura descritta sopra, che prende il nome di caratterizzazione. Infine, sulla base dei dati raccolti, si effettua la profilazione: viene creato il profilo colore che viene installato a livello di sistema operativo come profilo colore predefinito. I parametri di calibrazione possono variare, e con essi varia l’aspetto di ciò che vediamo a monitor. Non varia però la qualità delle prestazioni del monitor, e non ci sono tanto regole fisse su quali parametri impostare, quanto indicazioni generali suddivise per tipologia di attività. Ne riparleremo in futuro.
L’impostazione del software: le opzioni migliori per Photoshop
Il profilo colore del monitor non dovrebbe apparire all’interno di Photoshop, né in generale all’interno di qualsiasi altra applicazione. Purtroppo il programma di Adobe viene fornito con impostazioni di fabbrica non ottimali, che definiscono il profilo colore del monitor come Predefinito e, in sostanza, disattivano la gestione del colore. Potete verificare lo stato del vostro sistema aprendo la finestra delle impostazioni colore (menu Modifica > Impostazioni colore), rappresentata in figura 3.
Se state lavorando con le impostazioni predefinite (“Colore del monitor”, in alto a sinistra), è meglio cambiarle. Questo insieme d’impostazioni ha vari problemi, ma il principale è che i criteri di gestione del colore sono disattivati (al centro). Il mio suggerimento è di selezionare “Prestampa Europa 3”, “Uso generico Europa 3” o “Web/Internet Europa 2” al posto di “Colore del monitor”, a seconda del vostro campo d’interesse. Le prime due impostazioni citate sono più o meno equivalenti, e rispettano il profilo colore incorporato nei documenti; la terza propone invece la conversione in sRGB dei documenti codificati in uno spazio colore diverso (un’esigenza specifica nel caso del Web). All’interno di Adobe Creative Cloud, le impostazioni colore possono essere rese omogenee tra le diverse applicazioni utilizzando Adobe Bridge. In generale, quando Photoshop richiede come gestire il profilo colore incorporato in un’immagine (nel caso che esso non coincida con quello già definito nelle impostazioni colore), la scelta canonica è quella di mantenerlo, ed è evidenziata in figura 4.
La scelta peggiore è quella che prevede l’eliminazione del profilo ed equivale a non gestire il colore. Questa però è la scelta che Adobe propone come predefinita nel caso si mantengano le impostazioni viste in figura 3. Purtroppo, si tratta di una ricetta pressoché sicura per ottenere spostamenti cromatici importanti all’apertura di un generico file. Poco male: pochi clic di mouse sono sufficienti per cambiare le cose e mettersi al riparo da problemi seri!
Chi è Marco Olivotto
Classe 1965, si laurea in fisica, ma lavora per anni come tecnico del suono e produttore musicale. Appassionato di fotografia fin da bambino, si avvicina presto alle tecniche digitali. La svolta avviene nel 2007, quando scopre i libri di Dan Margulis, padre della correzione del colore in Photoshop. Inizia a trasportare le tecniche apprese nella realizzazione grafica delle sue produzioni, fino a che nel 2011 inizia a insegnare gli stessi argomenti dopo avere seguito due corsi di teoria del colore applicata (base e avanzato) con lo stesso Margulis. Pubblica oltre 50 ore di videocorsi sulla materia con Teacher-in-a-Box, scrive a lungo per riviste specializzate, insegna in corsi post-diploma e universitari. Diventa speaker ufficiale per FESPA in diverse fiere internazionali e tiene corsi e workshop in Italia e Svizzera in diverse scuole (LABA, ILAS) e organizzazioni private. Ha collaborato in veste di consulente e formatore con realtà come Canon, Durst, Mondadori, Yoox, Angelini, Calzedonia, FCP Grandi Opere e altre. Si occupa di post-produzione fotografica e prestampa per diverse realtà editoriali. Nel 2016, la casa madre giapponese di EIZO lo ha nominato Ambassador nel primo gruppo di esperti formatosi attorno al marchio. marcoolivotto.com