21 Agosto 2019 di Vanessa Avatar

Testimone di un’Italia in pieno boom economico, Santo Piano ha sviluppato dagli anni Sessanta un interesse per la fotografia che lo ha avvicinato ai temi del cambiamento sociale e culturale caratterizzanti quegli anni. Ci incontriamo nel suo studio dove mi accoglie per mostrarmi l’archivio, i premi e i tanti libri su cui ha studiato. Ammira Dorothea Lange, William Eugene Smith, Henri Cartier-Bresson, Robert Capa e Gordon Parks, modelli di riferimento che lo hanno spinto a cercare di non limitarsi al singolo scatto per raccontare storie capaci di fermare il tempo. Durante la mattinata trascorsa insieme mi racconta della sua camera oscura, allestita nelle cantine della casa in cui viveva, e dei tanti concorsi a cui ha partecipato

Santo Piano: fotografo autodidatta

Classe 1924, autodidatta, inizia a dedicarsi alla fotografia a trent’anni, avvicinandosi a vari circoli amatoriali locali – prima con l’Associazione Fotografica Ligure e poi dal 1960 con il Gruppo Fotografico Genovese – dove impara le tecniche di stampa da Giuseppe Goffis. Il suo primo premio è stato per un reportage sportivo ma dal corpus del suo lavoro si coglie che è il racconto sociale ciò che lo interessa maggiormente. Nella sua indagine è forte la lezione neorealista sia per il gusto compositivo che per l’interesse a temi talvolta antropologici. La sua è una narrazione a più piani che lo ha allontanato dal mondo amatoriale negli anni in cui i premi dilettantistici cercavano soprattutto chi proponeva l’immagine singola. Attraverso una personale visione ironica e ottimista,  si è distinto per l’abilità compositiva e di stampa impeccabile, fatta di mascherature, doppie esposizioni, manipolature e un bianco e nero nettamente contrastato. Ciò è evidente in Gente di Calabria , un reportage nato nel luglio del 1969 quando, assieme ad altri tre fotografi, fu chiamato da Italia Nostra  per documentare l’abusivismo edilizio sulle coste di Tropea. Affascinato dalle condizioni contadine delle campagne che lo riportavano visivamente al passato, decide di addentrarsi in alcuni villaggi per fotografare il vissuto quotidiano, fatto di vita nei campi e di religiosità, nobilitandone i soggetti. In questi luoghi l’autore trova tracce tangibili del terremoto del 1907 e ritrae quelle donne e i loro figli rimaste sole per l’emigrazione maschile al Nord. Queste immagini vinceranno successivamente vari premi e saranno esposte durante un convegno, tenuto a Sorrento nel 1970, dal titolo Uomini & immagini del centro- sud  insieme a quelle – tra i tanti – di Mario Giacomelli e Enzo Sellerio. Negli anni Settanta è chiamato a documentare gli stabilimenti siderurgici Italsider di Genova Cornigliano, dove segue gli operai nello svolgimento delle loro mansioni. In un ambiente che ricorda eccezionale, lo colpiscono le polveri, i fumi, il fuoco e soprattutto i contrasti dimensionali dei macchinari enormi dell’altoforno rispetto alle figure degli uomini. Ne nascono immagini nelle quali è evidente una ricerca volta a evidenziare la resistenza dei lavoratori e della luce in ambienti estremamente bui, dove i laminatoi «sembravano dei serpenti di acciaio infuocato». In quegli stessi anni fotografa il porto di Genova con immagini che si spingono fino all’astrazione geometrica delle forme, documenta l’alluvione del 1970 e la città che velocemente si dilata negli spazi sottolineandone le contrapposizioni urbanistiche. La sua città e la Liguria sono soggetti ricorrenti e, per una ventina d’anni, l’autore ne ha raffigurato i paesaggi e i personaggi, con scorci e contesti diversi, attraverso una ricerca compositiva grafica e attenta al risvolto emotivo delle figure ritratte, donando loro forte dignità. É da immagini come queste che il lavoro dell’autore in quegli anni fu innalzato come esempio a “molti fotografi non ancora formati”, per un uso lento e riflessivo della macchina fotografica unito alla volontà di cogliere il positivo dalla realtà.

Di Gloria Viale

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