29 Ottobre 2019 di Redazione Redazione

Pioniere del foto-giornalismo, teorico dell’istante decisivo in fotografia, Henri Cartier-Bresson ha contribuito a far crescere la notorietà di quest’arte contagiando con la sua bellezza un pubblico sempre più vasto. Per molti è stato il più grande. Per tutti rimane un maestro e il creatore di uno stile asciutto, capace di grande sintesi espressiva. Definito “l’occhio del secolo”, ha saputo cambiare la maniera di osservare la realtà e di pensare la fotografia.
«Osservo, osservo, osservo. Sono uno che comprende attraverso gli occhi» scriveva nel 1963. Per tutta la vita, l’immagine è stata il suo linguaggio privilegiato. Seppur abituato a prendere molti appunti durante i suoi reportage, nel complesso ha scritto poco sulla sua pratica. A venirci incontro sono le molte interviste che ha rilasciato nel corso degli anni. Un vero tesoro di pensieri per comprendere l’uomo, l’autore, e il sentimento riguardo all’azione fotografica. Al critico francese Daniel Masclet – era il 1951 – ebbe a dire, riguardo alla fotografia, che «è un mezzo di espressione, al pari della musica e della poesia. È il mio mezzo di espressione, e per me anche un mestiere. Ma al di là di questo, è il mezzo che ci consente, attraverso le immagini, di portare testimonianza». E proseguiva: «Noi reporter non ci attacchiamo tanto alla prova estetica fine a se stessa: qualità, toni, ricchezza, materia, ecc., quanto al fatto che dall’immagine, prima di qualsiasi criterio estetico, emerga la vita». Alla domanda su qual è il soggetto più importante, rispose: «L’uomo. L’uomo e la sua vita, così breve, così fragile, così minacciata.

Henri Cartier-Bresson il fotografo che si occupa dell’uomo

Grandi artisti come il mio amico [Edward] Weston, o come Paul Strand o [Ansel] Adams, che hanno un enorme talento, si dedicano soprattutto all’elemento naturale, geologico, il paesaggio, i monumenti. Io, invece, mi occupo quasi esclusivamente dell’uomo. I paesaggi sono eterni, io vado di fretta. Certo, ciò non vuol dire che separo in maniera arbitraria l’essere umano dal suo ambiente, che lo strappo dal suo habitat: sono un reporter e non un ritrattista di studio. Ma l’esterno (o “l’interno”) in cui quest’uomo, il mio soggetto, vive e agisce mi serve solo, diciamo così, come scenario significativo. Mi servo di questo scenario per collocarvi i miei attori, per dar loro risalto, trattarli con il rispetto che meritano. E il mio modo di agire è basato su questo rispetto, che è anche un rispetto della realtà: non fare rumore, evitare qualsiasi ostentazione personale, essere, per quanto mi riesce, invisibile, evitare di “predisporre” o “mettere in scena”, limitarsi a esserci, avvicinarsi pian piano, a passo felpato, per non smuovere le acque». Alla domanda «Dunque, niente flash?», ecco cosa dichiarò: «Ah, sì, questo è fondamentale. Non è quella l’illuminazione della vita. Non lo uso mai, non ho la minima voglia di usarlo. Atteniamoci al reale, atteniamoci all’autentico! L’autenticità è senza dubbio la più grande virtù della fotografia». Convinto che non debba dimostrare una tesi, in quanto non asservita alla propaganda, la fotografia rimane una ricchezza per riconoscere una scintilla di verità del mondo, una storia raccontata tramite un dettaglio. Quello che più contava per lui, in definitiva, è lo sguardo che arricchisce lo spirito e che interroga la realtà.

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