24 Luglio 2019 di Vanessa Avatar

iPhoneographia, cioè l’arte di fotografare utilizzando la fotocamera di uno smartphone. Nel 6 ottobre 2010 sull’iTunes store venne resa disponibile un’applicazione gratuita per scattare, modificare e condividere immagini. Era Instagram, nuova forma di social network che contribuì a generare una piccola rivoluzione. Omaggio alla fotografia retrò, reintrodusse il vecchio formato 6×6 quadrato e filtri che ricordano le Polaroid anni Settanta. Oggi di proprietà di Facebook, vanta più di cinquecento milioni di utenti giornalieri nel mondo.  Instagram è alla base di un fenomeno che sta modificando le abitudini di scatto. Parliamo dell’iPhoneographia, cioè l’arte di fotografare utilizzando la fotocamera  di uno smartphone, che tocca il suo apice con un contest internazionale denominato IPPAWARDS. È una specie di World Press Photo del settore, un premio ideato da Apple per dare valore a questa giovane arte coinvolgendo 70 nazioni e proponendo 17 categorie tematiche. Le regole di partecipazione sono semplici. È vietato il fotoritocco con Photoshop o altri programmi da computer, si possono solo modificare gli scatti usando una delle tante applicazioni dedicate. Molti autori oggi testano l’iPhoneografia un po’ per gioco e un po’ per arte. Basta guardare queste opere del concorso o frequentare Instagram per pescare profili di grandi reporter che lì tengono un diario o postano mini capolavori.  La frequentano maestri dell’obiettivo come Toni Thorimbert, Bill Vaccaro, Giovanni Gastel, Bill Frakes, Michael Yamashita e ci sono i profili di Life o National Geographic mescolati senza snobismi agli altri utenti meno “pro”.

iPhoneography

I fotografi “tradizionali”, che hanno investito denaro nell’attrezzatura e magari oggi faticano a lavorare, affermano che uno smartphone rende troppo facile ottenere buoni risultati e che si perde la poesia di misurare la luce con tempi e diaframmi. In parte hanno ragione, ma forse somigliano agli stessi che non volevano credere nell’avvento del digitale e col tempo hanno dovuto ammorbidire le loro posizioni. La verità è che si tratta solo di un mezzo e, come altri, potrebbe servire a raccontare una storia attraverso le immagini. Questo è ciò che differenzia un professionista da altri fruitori: la capacità di registrare la realtà, di trasmettere un messaggio, qualunque dispositivo egli abbia in mano. Tutti sono preda però di questo rituale fatto di gesti automatici e leggeri: inquadro, scatto, condivido. Un intercalare continuo tra relazioni sociali, promozione e privato che avviene per mezzo di immagini mordi e fuggi consumate a una velocità impressionante. Questi aggeggi a ottica fissa ci evitano di investire energie nella scelta della giusta esposizione, lasciando libertà su composizione e racconto. Si sono diffusi perché hanno dimensioni ridotte, potenza di scatto, tecnologia avanzata, facilità di uso e connettività in rete. Il cambiamento era inevitabile e, ora, più evidente. Lo sanno bene le aziende del settore, che hanno messo in commercio fotocamere dotate di connessione WiFi, lenti aggiuntive da applicare sul telefono, mini-treppiedi, flash e luci led. Con l’iPhone si sono realizzate intere campagne pubblicitarie, copertine di settimanali, matrimoni, workshop e letture porfolio direttamente dal touch screen. Il dibattito si infiamma. Questo linguaggio resterà un gioco o può essere considerato arte? Snatura o arricchisce la fotografia? Dove si impara? Nessuna certezza, se non quella di sperimentare iscrivendosi al premio o scaricando le app più belle per farsi un’opinione propria.

 

Di Barbara Silbe da Il Fotografo 

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