Abbiamo intervistato Valerio Bispuri che nel suo ultimo libro, Dentro una storia, va alla ricerca degli ultimi.

23 Luglio 2022 di Giovanni Pelloso Avatar

Fotoreporter dal 2001, Valerio Bispuri ha recentemente pubblicato con Mimesis Dentro una storia. Un volume in cui conduce il lettore nel mondo degli ultimi e dei dimenticati attraverso un percorso narrativo costituito da ricordi, riflessioni, sguardi e gesti.

L’intervista a Valerio Bispuri

L’occhio di Valerio Bispuri si volge agli ultimi. Agli invisibili. La bellezza sta nel non voler dimenticare una parte dell’umanità (che soffre). Nel non lasciarsi condurre dall’indifferenza verso chi, ai margini della società, non ha voce. Verso quel mondo che abbiamo voluto dimenticare. Dai rom ai detenuti, dai drogati ai sordi, fino ai malati mentali.

La sua sfida è nel far affiorare un universo nascosto, difficile da contattare, alimentando, nell’incontro, una reciproca conoscenza.

Com’è stato il confronto con una casa editrice non espressamente legata al mondo della fotografia? Cosa chiedevano e cosa interessava loro far emergere?

«Con Francesca Adamo, vice caporedattore di Mimesis, c’è stata sin da subito una bella intesa. La loro attenzione è rivolta alla fotografia quando si pone in relazione a qualcos’altro, attivando spazi di riflessione e di analisi. La fotografia, in tal senso – e qui sta anche la differenza di questo libro rispetto ad altre mie produzioni –, va fatta parlare, rivelando il suo essere strumento culturale.

Qui, il mio impegno nella scrittura è stato importante, consentendomi non un semplice racconto delle storie fotografate, ma di provare a spiegare il mio sentire».

Valerio Bispuri, Encerrados, Santiago del Cile, 2007

Tra i lavori che meglio sintetizzano il tuo essere fotografo c’è Encerrados, al quale dedichi un capitolo del libro. Iniziata quasi per caso nel 2002 e durata poco meno di dieci anni, quest’indagine sulla vita in settantaquattro strutture detentive del Sud America risulta un modo per raccontare un grande continente, in quanto parte, specchio, del tutto, oltre che essere un’opera di denuncia riguardo una situazione drammatica che spesso non lascia scampo.

«C’è una fotografia che rimane nel tempo quando non segui espressamente la cronaca. È un lavoro che ancora oggi mi chiedono e il suo interesse, in senso antropologico, non svanisce. All’epoca, quando lo iniziai, ero giovane e mi lasciavo facilmente coinvolgere dalle occasioni.

Tutto incominciò una sera a Quito, in Ecuador. Incontrai uno scrittore che aveva appena pubblicato un libro sul nuovo sistema carcerario del Paese. Parlando – eravamo a cena –, mi invitò a visitare un carcere. Accettai, spinto dalla curiosità, anche se poi si rivelò, varcate le mura, un’esperienza difficile, traumatizzante, per la violenza che incontrai. Ma non solo.

Scoprii che anche dentro quel confine c’è solidarietà e che gli uomini, anche se privati della libertà, cercano il più possibile di mantenere le proprie abitudini».

Ho sempre visto la fotografia come un guardare attraverso il mondo con la lente d’ingrandimento delle nostre emozioni. Un gesto che diventa forma, uno spazio che si interpone agli angoli remoti delle nostre linee interiori.

Leggi l’intervista completa a Valerio Bispuri sul n. 336 de IL FOTOGRAFO

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