23 Gennaio 2019 di Vanessa Avatar

Alessia Rollo

Fotografa concettuale, ha realizzato numerose mostre personali e collettive in Spagna, Italia e in Brasile. Come artista è stata selezionata per la residenza internazionale Default. Masterclass in residence a Lecce, per una residenza presso il MO.ta di Lubiana, per la Biennale dei giovani artisti nel Mediterraneo a Milano e per Bitume Photofest, esponendo le sue opere e Malaga, Salonicco e Lecce.

Intervista a Alessia Rollo

Come ti sei avvicinata al mondo della fotografia?
«Il mio incontro con la fotografia è stato casuale. Pochi mesi dopo la laurea mi sono trovata a vivere a Dublino. Capivo a stento la lingua, ma avevo una reflex con me, una Pentax analogica. La fotografia mi ha permesso di comunicare senza parole e da lì è nato il mio grande amore per le immagini».

Dialoghi italiani è un lavoro che riflette su un aspetto specifico della fotografia, la sua fragilità come supporto per la memoria umana. Lo trovo un lavoro estremamente poetico che mette in luce una forte sensibilità. Mi racconti com’è nato? E in che modo si è evoluta l’intuizione iniziale?
«Due anni fa passeggiando per la mia città trovai degli album di famiglia abbandonati vicino un bidone dell’immondizia. La maggior parte delle foto, a causa della pioggia e dell’umidità si erano sciolte, tornando a essere pura materia. Ho iniziato a ragionare sul valore indicale della fotografia, del suo limite di documento o traccia quando il nesso tra soggetto rappresentato e referente esterno si perde. Non potendo restituire la memoria a questo gruppo di persone ho deciso di frammentarla ulteriormente, attraverso un approccio quasi scientifico».

Dialoghi italiani prenderà, a breve, la forma di un libro realizzato con il contributo grafico di Kaspar Hauser. Come avete trasferito un lavoro così complesso su carta?
«Contrariamente ad altri progetti, per Dialoghi sin dall’inizio ho avuto chiaro che la sua forma di restituzione sarebbe stata un libro, forse perché coerente con gli album fotografici cui appartengono le foto. Il lavoro che tuttora stiamo realizzando con Kaspar Hauser ricuce tre aspetti del progetto: una parte più figurativa con una selezione d’immagini che evidenziano la presenza di alcuni personaggi dell’album, una parte più astratta frutto di una visione macroscopica delle fotografie e una serie di testi sul tema della memoria, della fotografia e della sua fragilità».

Uno dei tuoi ultimi progetti, Fata Morgana, è un tentativo di ricreare la complessa immagine del Salento, la tua terra d’origine, da sempre luogo di attraversamento, meta illusoria di genti in fuga e recentemente sminuito dal marketing territoriale regionale. Che cosa significa per te lavorare in Salento? Quanto sei influenzata dai luoghi in cui sei cresciuta?
«Durante il master in fotografia in Spagna, spesso commentavano i miei scatti dicendo che erano colori italiani. Credo che la luce del Salento mi abbia profondamente influenzata, così come la nostra pittura rinascimentale mi ha regalato la paletta di colori pastello che spesso uso. Fata Morgana  rappresenta la mia personale necessità di risignificare un luogo cui appartengo, spesso ridotto a cartolina turistica o stigmatizzato dalla cronaca. Questo lavoro mi ha permesso di creare un legame più profondo e personale con la mia terra».

Nella tua esperienza professionale in che modo si sono sviluppati i rapporti con la fotografia commerciale, le committenze pubbliche, il collezionismo?
«Quando un fotografo lavora raramente sa dove finiranno le sue creazioni, tranne nei casi di committenze pubbliche che danno l’opportunità di mettere la creatività a servizio di progetti altrui. Lo scorso anno, per esempio, sono stata incaricata della Regione Puglia per realizzare un racconto fotografico di alcuni borghi marini regionali. Oltre a me sono stati coinvolti dieci fotografi, di cui cinque pugliesi e cinque stranieri. Sarebbe interessante se anche in Italia, come in altri stati, gli artisti avessero maggiori opportunità di lavorare per creare nuovi immaginari e raccontare il nostro Paese»

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