3 Agosto 2019 di Vanessa Avatar

Un viaggio alla scoperta del percorso artistico di Luigi Erba, tra studio, sperimentazione e ricerca concettuale.
Uno scatto dopo è il titolo del libro pubblicato da Silvana Editoriale che ripercorre dal 1969 al 2015 l’opera dell’artista Luigi Erba. Non si tratta di un percorso lineare e cronologico, ma di un viaggio circolare all’interno della ricerca artistica di un autore che ha esplorato i limiti e le possibilità del linguaggio fotografico, seguendo le evoluzioni e involuzioni del proprio pensiero. Luigi Erba nasce a Lecco nel 1949 e fin da bambino si confronta con la magia dell’immagine latente che affiora in superficie durante i processi di sviluppo. Il padre, infatti, è titolare di un laboratorio fotolitografico e subito lo introduce ai segreti della stampa fotografica. Una volta cresciuto, l’autore potrebbe continuare il mestiere, eppure decide di percorrere una strada alternativa e singolare, dove la fotografia si trasforma in compagna di vita essenziale, fulcro di una ricerca personale che ha il solo scopo di scandagliare la realtà e la propria esperienza di uomo. Ventenne, studia Lettere all’Università Cattolica di Milano, si confronta col pensiero dei filosofi, è impegnato politicamente e avverte il richiamo dell’arte contemporanea che approfondisce con passione, arrivando a recensire mostre e a scrivere per riviste, cataloghi e giornali. La sua curiosità vorace trova espressione in campi culturali diversi e contigui, ma al centro rimane sempre la fotografia

Luigi Erba e il ghost town

I primi lavori che realizza hanno per soggetto la natura e risalgono alla fine degli anni Sessanta. Sono opere che mostrano poca consapevolezza e molta istintualità, come accade spesso quando si comincia a sperimentare con uno strumento, lasciandosi sorprendere dall’imprevisto e abbracciando gli errori come possibilità. Poi, nell’arco di pochi anni, si assiste a un cambiamento. L’attenzione di Erba si sposta sul paesaggio alpino e sull’architettura spoglia ed essenziale delle case di montagna abbandonate. L’autore registra il fenomeno delle ghost town, lo spopolamento delle aree montane. Le sue immagini di “archeologia naïf” riflettono le trasformazioni sociali, ma si presentano astratte, senza tempo, e soprattutto mostrano una consapevolezza nell’uso del linguaggio fotografico che troverà completa espressione negli anni Ottanta. É in questo periodo che Luigi Erba affronta in maniera sistematica un discorso metafotografico destinato a non esaurirsi, come sottolinea l’autore: «Succede questo fatto della fotografia non più concepita come momento unico, ma come scatto prolungato all’infinito al di fuori del tempo e dello spazio, in cui la stessa presenza/ assenza di luce in camera oscura determina l’essere o non essere dell’immagine. Nel linguaggio c’è consapevolezza, è il riflesso di un pensiero, di una particolare concezione del tempo». Pian piano rivolge il proprio interesse verso lo spazio urbano e, in particolare, verso quello della propria città, lavorando per dieci anni. «Fuori da casa, su mezzo chilometro quadrato – racconta –. Lecco era una delle prime città italiane a più alta concentrazione di fabbriche, e la fabbrica la sentivi nel rumore e in mille altri modi, come odore e sapore… La fabbrica mi interessava nel suo momento di passaggio, di ri- o non utilizzo». É questo eterno ritorno, questa circolarità, questo «passaggio del tempo presente futuro e futuribile che avviene tutto in un attimo» a interessare profondamente Luigi Erba, il quale inizia a sperimentare con le esposizioni multiple sullo stesso rullino fino a giungere agli Interfotogrammi, ai Polifotogrammi e a Un luogo sull’altro. In tali progetti, egli concepisce l’immagine come somma di scatti diversi che entrano in relazione tra loro e non come frammento unico e assoluto.
In Un luogo sull’altro , in particolare, il rullino è impressionato più volte in un luogo, quindi riavvolto e lasciato giacere per mesi o addirittura anni in frigorifero, poi ripreso e impresso nuovamente in un altro ambiente. La sovrapposizione, in parte controllata e predeterminata e in parte casuale, restituisce l’essenza di un’impressione effimera, creando ambiguità tra documento e percezione immaginifica. Come ha sottolineato Roberto Mutti, si tratta di «un’esperienza linguisticamente estrema, grazie alla quale l’autore può avvicinare luoghi tra di loro molto lontani fino a farli sembrare frutto della fantasia creativa, suggerire che ogni paesaggio sia vissuto come esperienza interiore, mettere in luce potenzialità narrative che si potrebbero forse inscrivere in una poetica non priva di venature surrealiste». Nelle immagini stratificate di Luigi Erba, frammenti di memoria e realtà si fondono lasciando emergere l’inconscio tecnologico, l’istinto della mano, la consapevolezza del gesto e l’insistenza dello sguardo, di quell’occhio che vuole vedere, sempre.

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