28 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Il termine vernacolare identifica tutte quelle forme di produzione e di espressione culturale che si presentano utili per funzione, domestiche per luogo di appartenenza e popolari per lo spirito che emanano. La cultura vernacolare americana costituiva un tema di riflessione molto vivo all’epoca di Walker Evans, che sicuramente fu influenzato dagli studi di John Atlee Kouwenhoven e John Szarkowski. Il fotografo stesso, con il padre impegnato nell’ambito pubblicitario, aveva potuto sviluppare fin da giovanissimo una relazione particolare con l’iconografia di massa prodotta per quel settore (cartoline, locandine, manifesti e insegne pubblicitarie, biglietti della lotteria, ticket per i mezzi pubblici). Documenti e oggetti della cultura popolare che Evans collezionerà per tutta la vita e che influenzeranno il suo modo di fare fotografia dal punto di vista del contenuto e dello spirito. Come ha evidenziato Jeff L. Rosenheim, le cartoline, in particolare, possedevano quell’aspetto anonimo, anti-estetico e documentario che il fotografo ricercò costantemente nei suoi scatti. Fin dagli esordi negli anni Venti, la fotografia di Evans rende omaggio al modernismo americano in architettura attraverso la sua espressione più spettacolare: i grattacieli di New York. Lo stile, nelle riprese dall’alto, l’uso del décadrage e dei primi piani, rimanda ancora alla Nouvelle Vision  europea, per intenderci quella di Moholy-Nagy e Rodtchenko. Una serie di incontri fondamentali nel corso degli anni Trenta, lo portano a evolvere verso una forma vernacolare più matura e decisamente americana. Grazie a Ralph Steiner, Evans apprende nel 1931 i rudimenti della camera per grandi formati e condivide l’attenzione per i bassifondi, le insegne rovinate, il mondo della strada. Con James Agee, conosciuto poco dopo, il fotografo firma l’opera Let us Now Praise Famous Men  (1941). Le immagini delle tre famiglie operaie dei Burroughs, dei Tengle e dei Fields sono tra le sue più riuscite di sempre, capaci di nutrirsi di varie forme di linguaggio vernacolare, dai canti popolari alle espressioni idiomatiche. Ancora, grazie all’amicizia con Berenice Abbott, nel 1929 Evans ha occasione di vedere da vicino le immagini di Eugène Atget, il fotografo della vecchia Parigi che si era concentrato sulla decadenza della città e sul popolo degli umili. Punto di svolta è però l’incontro con Lincoln Kirstein. Lui, brillante studioso di Harvard, membro del comitato scientifico del MoMA, aveva fondato la rivista Hound & Horn , dove, accanto ai testi di T. S. Eliot o Ezra Pound, pubblicava articoli legati all’architettura vernacolare, ai fumetti e ai cartoni animati. Nel 1931, Kirstein propone a Evans di accompagnarlo a fotografare l’architettura vittoriana del New England. Questa serie sarà oggetto tra il 1933 e il 1934 di una mostra al MoMA dedicata all’architettura.

Walker Evans e la cultura vernacolare

Grazie a Kirstein, Evans comincia ad allargare il suo campo di osservazione, abbracciando tutte le manifestazioni della cultura vernacolare. Il vernacolare diventa il soggetto della fotografia di Walker Evans. Lo è nei luoghi, spesso di transito (stazioni, incroci stradali), negli anonimi personaggi che li abitano, e negli oggetti ordinari, d’uso comune. Il quotidiano, cultura invisibile e non considerata, appassiona Evans nel momento in cui rivela una forma di americanità. Ma c’è di più. Poiché in molte immagini, il soggetto è la fotografia vernacolare in sé stessa, si può dire che per Evans essa funzioni come un modello, soggetto e metodo della rappresentazione. Per quarant’anni, Evans ha fotografato i soggetti della cultura vernacolare americana, assumendone di volta in volta le modalità di espressione. Per fotografare le città è diventato fotografo d’architettura, adottando i codici della fotografia applicata, come il sistematismo seriale. E delle città, si è concentrato sulla main street , la strada principale, e su come la vita si sia costruita attorno a essa – peculiarità dell’urbanismo americano –. Per fotografare i passanti, Evans si è fatto fotografo di strada, applicando la tecnica dell’automatismo e riprendendo genti diverse tutte accomunate dall’essere anonime, americane, di classe popolare o media. È divenuto fotoamatore quando ha immortalato i propri cari con miriadi di istantanee, scatti rubati all’improvviso, decentrati, senza lasciare il tempo di far mettere in posa il soggetto. Una passione mai sopita, quella per l’istantanea, come testimoniano le sperimentazioni degli ultimi anni con le Polaroid. Per rappresentare gli oggetti, è diventato fotografo da catalogo enciclopedico/pubblicitario. Il suo portfolio del 1955 su Fortune , dedicato alla bellezza degli oggetti d’uso comune, replica queste modalità nell’efficacia visuale della ripresa isolata in primo piano su fondo neutro, nell’immediatezza, nell’assenza di ombre e nella disposizione seriale. Il paradosso è che Evans ha adottato le procedure della fotografia non artistica, ma con un approccio costantemente creativo. Questo gli ha permesso di creare per il vernacolare un proprio stile riconoscibile e originale: il documentario lirico. Unendo modelli alti e bassi, il documentario lirico nasce dalla tradizione della fotografia documentaria  ma a essa accosta altre forme di registrazione visiva quali le istantanee, la pubblicità, le cartoline. Come ha notato David Campany, la scelta del documentario e i lavori per le riviste, tra tutte Hound & Horn , che contraddistinsero gli esordi di Evans in fotografia, rappresentavano la volontà precisa da parte dell’autore di contrapporsi alla cultura dei salotti e delle gallerie, a favore di una cultura popolare che potesse divulgare la verità alla massa.

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