3 Aprile 2019 di Vanessa Avatar

Saponara, nato nel 1934 sull’altra sponda dell’Adriatico, a Lagosta, l’attuale croata Lastovo, ha vissuto sempre in Puglia diventandone il cantore fotografico sin dagli anni Cinquanta. Un po’ marginale rispetto ad alcuni circuiti nazionali che negli anni Sessanta davano notorietà a molti importanti fotografi italiani, Saponara ha collezionato tuttavia una serie notevole di pubblicazioni e mostre intorno ai suoi lavori, imperniati sulla documentazione del paesaggio,
della gente e della vita nella zona appulo-lucana. Gli anni del neorealismo prima e quelli di un certo realismo poetico poi, avevano spinto molti importanti fotografi italiani a realizzare servizi fotografici in Puglia e Basilicata: basti pensare all’eccezionale reportage realizzato da Franco Pinna al seguito dell’etnologo Ernesto De Martino sul fenomeno delle tarantate nel Salento (1959) – La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, il volume di De Martino che non dovrebbe mancare nella biblioteca di ogni fotografo italiano – ad alcuni lavori di Mario Giacomelli (La buona terra, 1964-66), Nino Migliori e altri grandi fotografi attratti dalla bellezza dei luoghi e dalla necessità di documentarne la situazione sociale. Fino a giungere poi alla lunga permanenza di Mario Cresci a Matera, dove alterna e sintetizza la documentazione realistica con l’analisi semantica (Misurazioni, 1977).

Saponara ha avuto un legame profondo con la terra di Puglia e soprattutto con i suoi ulivi

In questo climax eclettico e ricco si inserisce il lungo lavoro di Saponara che, dispiegato su molti decenni, ha dalla sua il vantaggio di essere realizzato da un autore che in quei luoghi viveva. Saponara ha avuto un legame profondo con la terra di Puglia e soprattutto con i suoi ulivi: è stato uno dei primi a fotografarli cercando di trasferire sulla stampa fotografica la bellezza e la complessità delle forme, secondo la lezione della fotografia pura americana degli anni Trenta e Quaranta. Questo rapporto così forte con la terra ricorda un po’ il rapporto che legava Giacomelli alle sue Marche o che lega Pepi Merisio alla sua Lombardia. Saponara amava raccontare che all’inizio lui viveva gli ulivi quasi come un esercizio zen, un luogo di pace e meditazione: poi ha cominciato a fotografarli e li sentiva suoi, battezzando perfino ogni pianta con nomi antropomorfi a seconda della sua forma. E poi il legame che lo univa alla gente dei luoghi che visitava e fotografava: non era, il suo, lo sguardo più tradizionale, tipico di un certo fotoamatorismo – legato a una rappresentazione un po’ falsamente poetica e pittorica, se non addirittura pittoresca, del Sud – ma quello appunto già analitico che si soffermava sui dettagli, sugli strumenti di vita e di lavoro, sulle particolarità dell’architettura e del territorio. Si tratta, insomma, di un accurato e rigoroso lavoro di documentazione socio-antropologica e, non a caso, Saponara fu chiamato a collaborare per la parte iconografica a numerosi progetti editoriali di studiosi della materia.
Ecco allora il suo indagare lento e attento sui volti, sulle manifestazioni religiose così importanti e caratterizzanti il Mezzogiorno d’Italia, sulle forme della natura e dei luoghi, quelli naturali e quelli antropizzati, sugli obsoleti strumenti dell’agricoltura ritratti nella loro essenzialità, ma – a differenza di Weston che
fotografava gli oggetti esclusivamente per la loro valenza formale– impugnati da mani antiche e vissute. È la presenza costante dell’uomo, in definitiva, anche quando questo non appare direttamente nell’immagine, il filo rosso che lega tutta la sua opera. Guardando una consistente panoramica delle sue fotografie si evince il suo desiderio di farsi testimone del mondo, quello suo, profondamente radicato nella sua vita, dove il passato diventa storia, non malinconica rivisitazione. Scrive al proposito Lino Angiuli, poeta affermato, raffinato intellettuale e uno dei suoi amici che si stanno prodigando perché anche le Istituzioni locali si associno, pur nelle difficoltà dell’attuale momento storico, agli sforzi per la realizzazione di una struttura che possa conservare professionalmente, inventariare e divulgare il lavoro di Saponara: «[…] Per lui la macchina fotografica non è marchingegno tecnico per impossessarsi della realtà, ma strumento privilegiato per penetrare e consentire fusione con i riti, i luoghi, l’orizzonte che continua a ritrarre con ossessività esistenziale. La sua operazione, più che trentennale, pertanto, non è configurabile come ritorno, bensì come persistenza e permanenza: una resistenza culturale che oggi ci appare in tutta la sua preziosità, oggi, mentre con qualche affanno e difficoltà andiamo sempre più comprendendo quanto importante sia vivere culturalmente le trasformazioni che ci attraversano.» (A. Lupo, Vi racconto la Puglia, Edizioni del Rosone, Foggia 1997).

Lascia un commento

qui