Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, figura bistrattata sia dai libri di storia che da quelli di fotografia, fece della sua bellezza e intelligenza le sue armi vincenti. Fu inviata dal conte di Cavour, suo cugino, alla corte di Napoleone III per perorare presso l’imperatore l’alleanza franco-piemontese. Ne divenne la favorita, dando dimostrazione di quelle doti da stratega dell’immagine che le avrebbero consentito di precorrere i tempi, utilizzando la fotografia come strumento di seduzione e di espressione artistica. Approfondiamo la sua produzione grazie a Francesca Seravalle, ricercatrice veneziana e curatrice di Until Proven Otherwise / The Evidence of the First Photos, progetto sulle prime fotografie realizzato trasformando i materiali d’archivio in video-art e installazioni, con cui ha vinto il primo premio al Format Festival ed esposto a Ca’ Pesaro e alla Biennale del Cinema di Venezia. Dopo aver gestito il team di curatori e ricercatori d’archivio di Fabrica, è docente all’Istituto Marangoni di Londra e alla London South Bank University.
Intervista a Francesca Seravalle
Chi era Virginia Oldoini, conosciuta come la contessa di Castiglione? «Pioniera, emblema della donna moderna, artefice di se stessa, Virginia Oldoini (1837-1899) nacque a Firenze e visse a Torino, Parigi, Londra e La Spezia. Acclamata come la donna più bella d’Europa, di altissima cultura, parlava cinque lingue. Occupò un ruolo diplomatico di primo piano per l’unificazione italiana».
Perché fu all’avanguardia in campo fotografico? «Quando il ritratto fotografico era un evento anche per l’aristocrazia, e non era nata la fotografia di moda, con il fotografo reale Pierre-Louis Pierson lavorò dal 1856 al 1895 a un progetto di ritratto performativo di oltre quattrocentottanta lastre, diventando una delle donne più fotografate non solo del suo secolo. Sperimentò inquadrature mai realizzate, tagliando il volto all’altezza del naso, per esempio, e posò in modo anticonformista: di profilo, di schiena, languidamente sdraiata o morente a terra. Interpretò ruoli femminili dell’opera e della letteratura, da Anna Bolena di Donizetti alla Regina di Etruria, a Medea. Alcune interpretazioni sarebbero state considerate audaci ancora oggi, come la suora, l’amante e l’ubriaca, talvolta a scapito della bellezza. Non fu semplicemente modella, ma artista, performer, scegliendo il personaggio, commissionando i costumi, assumendo il ruolo di direttore artistico dei suoi tableau vivant fino al punto di scegliere l’angolatura della ripresa, la posa e a dipingere le immagini».
Come sei venuta a conoscenza della sua particolare storia? «Nonostante Scherzo di Follia, in cui si propone con una maschera sull’occhio destro, sia famosissimo e presente in molti libri di fotografia e di moda, di lei si parla poco. In quasi tutti gli archivi fotografici e nei libri accademici le fotografie che la ritraggono sono attribuite solamente a Pierre-Louis Pierson. Lavorando su Until Proven Otherwise / The Evidence of the First Photos – il mio progetto curatoriale dedicato alla ricerca delle prove di autenticità delle cosiddette prime fotografie – negli archivi del Metropolitan Museum of Art di New York trovai casualmente Les jambes, un’albumina di piedi nudi. Quest’immagine si fissò nella mia mente. Quando capii che erano della famosa femme fatale e che usava regalare ai suoi amanti le fotografie di seduzione, tutto prese forma. Risalii a una raccolta cospicua di fotografie dei suoi piedi e perfino ai suoi calchi al Musée d’Orsay. Mi accorsi che la fotografia non era un ritaglio o un ingrandimento – i bordi erano originali! –. Era la prima fotografia di feticismo, fino a prova contraria»
Cosa ti ha affascinato della sua persona? «Il fatto di essere la prima. Fu la prima a riconoscere nella fotografia il medium per immortalare la sua bellezza. In un certo senso, fu la prima influencer, in quanto gestì e curò la propria immagine con una creatività e una maestria incredibili. Fu la prima a costruire la propria immagine come icona, capendo l’importanza della moda: commissionò ai più famosi sarti dell’epoca, come Paquin e Doucet, abiti di uno sfarzo inaudito. Ruppe i codici di corte e ogni sua presenza fu un’esibizione da diva – come Madonna o Lady Gaga –, anticipò i vestiti surrealisti di Schiaparelli- Dalì, si presentò con un vestito trasparente di rete, da cigno – come fece Björk cent’anni dopo –, da Regina di Cuori con veri ex voto o da Lucrezia Borgia con una fialetta di profumo invece che di veleno. Lanciò la moda del magenta, delle piume, delle giarrettiere ricamate con frasi provocanti e introdusse per prima la biancheria intima e da letto di seta e di raso nero»
John Berger mette in comunicazione immagine e desiderio e teorizza la reazione al visivo come un evento emotivo e psichico. C’è molto di questo processo nel corpus di immagini che riguardano la contessa di Castiglione, ma forse anche qualcosa in più. Che ne pensi? «Se l’arte della seduzione fu uno dei suoi interessi, i close-up furono studi di feticismo di zone erotiche, oggetti del desiderio: le mani, i piedi, le gambe, la nuca, le spalle scultoree e lo sguardo. Che la contessa fosse un soggetto critico è anche suggerito dal famoso Scherzo di Follia in cui fissa direttamente lo spettatore attraverso la maschera, compiendo un’azione di détournement tra chi osserva e chi è osservato. Oggetto semantico ricorrente, come in Les yeux miré , è lo specchio che le permette di rappresentarsi come immagine riflessa e come osservante in un gioco voyeuristico che crea un legame emotivo e psichico tra noi e lei, conscia di essere vista»
Molta importanza la dava anche al rapporto tra testo e immagine. «Anticipò Man Ray e Duchamp. Intitolò una fotografia dei suoi piedi, sdraiata in una tomba, L’amputation du gruyère. Ironizzò sulla sua solitudine con Le baisemain, un ritratto in cui portava la mano alla bocca. L’importanza di dare un titolo a ogni fotografia, come segno di proprietà intellettuale, oltre che gioco tra testo e immagine, è comprovata dall’attenzione con cui è riportato sul recto di ogni opera, assieme al codice d’archiviazione, informazioni che trascrisse precisamente in un catalogo».
Tra gli artisti attuali, di chi potrebbe essere stata l’ispiratrice? «Sicuramente fu l’ispiratrice di Luisa Casati, collezionista d’arte, prima icona dark della moda. Fu la prima a lavorare sull’autoritratto fotografico d’artista dando significato al vestirsi, creando mise en scene, interpretando personaggi reali e immaginari e investigando molteplici declinazioni dell’io. Questa è una ricerca comune a molti artisti contemporanei come Claude Cahun, Pierre Molinier, Sophie Calle, Cindy Sherman, Gillian Wearing e Yasumasa Morimura. Un altro aspetto avanguardistico può essere trovato nella pittura delle stampe, con un intervento più creativo del suo coetaneo Felice Beato»
A cura di Francesca Orsi