1 Agosto 2020 di Giada Storelli Giada Storelli

Guanti, mascherine, distanziamento sociale. Parole che sono entrate con violenza nelle nostre vite insieme alla paura di toccarsi e di abbracciarsi tra amici e parenti e la diffidenza nell’incrociare uno sconosciuto in strada o sui mezzi pubblici. Tralasciando le fotografie di reportage dei bar chiusi, dei parchi vuoti, del silenzio delle piazze, dei medici e di infermieri in prima linea e dei camion dell’esercito che per mesi ci hanno raccontato di un mondo immobile e in attesa, come si sono adattati tutti quei fotografi non reporter a cui non era consentito uscire ed erano confinati in casa?

Una rivoluzione?

Tra mise en scène e still life casalinghi – su Instagram si può scoprire un profilo dedicato chiamato @homelife_stilllifeè emerso un approccio inedito che, come un vaso di Pandora, ha spalancato le porte a un dibattito che negli ultimi anni stava già avanzando grazie a una nuova generazione di autori che hanno spinto la fotografia ai limiti della sua definizione. Questi hanno come unico scopo quello di creare immagini, badando poco alle regole formali e tecniche del mezzo. Ed ecco allora che durante il periodo di quarantena molti fotografi si sono cimentati in veri e propri servizi a distanza, dove tra l’obiettivo e il soggetto si sono frapposti gli schermi dei computer collegati a piattaforme digitali come Zoom o FaceTime.
Il primo ad approcciarsi a una simile idea, in tempi non sospetti, è il fotografo Michael Wolf con il suo lavoro A Series of Unfortunate Events (2010): appaiono immagini prese da Google Street View dove sconosciuti in giro per il mondo erano immortalati dall’autore con la sua macchina fotografica comodamente seduto davanti al computer nel suo studio. Sebbene l’intento di Wolf fosse quello di porre l’attenzione sul significato di privacy nel mondo contemporaneo, la sua modalità, a distanza di anni, è stata profetica per il fenomeno che si è profilato negli ultimi mesi. Un nuovo modo di produrre immagini che utilizza come sfondo set improvvisati e che forma un’estetica originale, imperfetta e dove i segni delle interferenze della connessione diventano parte integrante di un linguaggio specifico.

A distanza di sicurezza dall’obiettivo

In molti in questi mesi hanno provato questa modalità. Tra questi ci sono Ivan Cazzola e Luca Bortolato. L’urgenza, per i due autori, è stata quella di sperimentare un approccio diverso.
«Da un lato – sottolinea Ivan Cazzola – è stato un modo per continuare a lavorare adattandosi alla situazione, dall’altro c’era il desiderio di contribuire a testimoniare questo momento storico attraverso quelle piattaforme digitali che hanno svolto un ruolo fondamentale per mantenere i contatti con le persone».
A differenza di altri, Luca Bortolato ha concentrato il proprio interesse verso le immagini che si compongono sullo schermo televisivo, intese come scorcio sul mondo esterno durante il lockdown: «In questo tempo di attesa, ognuno di noi ha cercato speranze nelle informazioni che giungevano dai media. Nonostante la fortissima presenza di internet, la TV ha ripreso il suo ruolo principe, unico mezzo che realmente riesce a raggiungere tutte le abitazioni, dalle famiglie agli anziani, dagli ospedali alle carceri. Ho immaginato milioni di persone sommerse ogni ora da migliaia di immagini».

66 © Ivan Cazzola

Il processo creativo di questi due lavori sono certamente differenti, ma vi è un denominatore comune: la presenza di un schermo, di un limite – per alcuni, di una soglia – tra il fotografo e il soggetto, perfetta metafora delle barriere che abbiamo imparato a indossare nell’interazione con gli altri.
Nelle sessioni di shooting, per Ivan Cazzola rimaneva fondamentale l’interazione collaborativa con le modelle e questa non è stata inibita dalla distanza fisica, ma al contrario: «Mi descrivevano gli oggetti e i mobili che avevano intorno, scegliendo insieme cosa proporre all’interno del set improvvisato. Tuttavia, il mio scopo era quello di rimanere il più fedele possibile alla realtà. Gli aggiustamenti, quindi, erano volti per lo più alla ricerca di una luce migliore. L’essere a distanza ha certamente aiutato ad avere delle pose e delle immagini più intime e spontanee».

Il Mondo Fuori © Luca Bortolato

Il Mondo Fuori © Luca Bortolato

Diversamente, Luca Bortolato racconta che nel processo di selezione delle immagini al televisore ha voluto riprodurre quell’azione compulsiva di zapping tra telegiornali, film e altro, a cui noi tutti ci siamo prestati durante il periodo di isolamento: «Cinquantasette giorni di quarantena, cinquantasette giorni di fotografie, oltre seimila immagini. Alcune hanno cominciato a ripetersi, specchio dell’informazione compulsiva alla quale ogni giorno eravamo sottoposti. Si pensi alle mascherine, ai camici, ai volti di persone in videoconferenza che aprivano al mondo l’intimità della loro casa. Tutti elementi di un loop continuo e magnetico, quasi anestetizzante. Riprendevo fiato nelle savane africane, nell’Artico o nelle foreste pluviali, nei paesaggi sconfinati o negli abbracci. Cercavo queste forme che sono diventate ancore a cui aggrapparmi, singole immagini che offrivano una inconsapevole speranza».

Con molta probabilità nel prossimo futuro tutto tornerà alla normalità, ma questo precedente storico non può far altro che spingere ancora di più i fotografi a non subire i limiti del mezzo, ma a trovare sempre nuove modalità espressive che possano agevolarli nell’azione.

Ivan Cazzola

Artista italiano di base a Torino. Ha accumulato anni di esperienza lavorando con riviste come Dazed, i-D, Vogue. La sua espressione si estende dalla fotografia ai documentari e cortometraggi.

Luca Bortolato

Nella sua carriera ha collaborato con riviste indipendenti come Youthies Magazine e tiene workshop in luoghi istituzionali come il Mart di Rovereto e Base a Milano. I suoi lavori sono stati esposti in tutta Italia, tra cui il Phifest – Contemporary Photography Festival di Milano

di Giada Storelli

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