22 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Nel guardare alle sue immagini in bianco e nero l’occhio coglie un testo complesso di edifici, piazze e forme che va ben oltre l’ambito primario nel quale l’esperienza si dispiega quotidianamente. A percepirsi è l’esserci, quella dimensione del sentire che ha a che fare con la prossemica, con il rapporto transazionale tra l’uomo e la realtà

Intervista a Niccolò Biddau

Hai investigato per cinque anni la città di Milano. Qual è stata la sfida?
«Studiare a fondo un luogo vuol dire entrare in un rapporto simbiotico con esso. I territori si scoprono e si riscoprono con nuove luci o dimensioni spaziali a volte inaspettate e a volte esaltanti, fino ad amarli profondamente. Milano ha saputo rinascere, innovando e rafforzando le proprie identità e vocazioni. Il luogo dell’architettura è il segno più manifesto di questo processo. Oggi è l’unica città italiana che vive in una dimensione fortemente contemporanea e internazionale. È un polo attrattivo per tante intelligenze che in questo rinascimento milanese trovano una loro interlocuzione. Il progetto fotografico che ho realizzato vuole raccontare tutto questo».

Quando è nato il progetto Changing Milano  e quali sono state le difficoltà organizzative e pratiche?
«Il progetto nasce nel 2012. Ha richiesto tempi lunghi di analisi, di pianificazione e di sviluppo. Quasi sempre sono entrato nei cantieri per cercare i punti più interessanti e inediti da fotografare. Questo però ha comportato un lungo lavoro iniziale di incontri con i titolari dell’area per le necessarie autorizzazioni. Penso sia questo il valore forte del progetto. Non sempre è stato facile, ma mediamente la disponibilità è stata molto generosa. L’obiettivo di un progetto fotografico è quello di realizzare un impianto narrativo coerente e armonico. Per finalizzarlo poi in un libro fotografico e in una mostra. Con il libro lasci una testimonianza del tuo lavoro durato anni e con la mostra cerchi di ampliare i tuoi interlocutori e sviluppi nuove esperienze».

Perché il bianco e nero?
«Fa parte del mio percorso di crescita. Sono cresciuto osservando le fotografie in bianco e nero di mio padre e nella ripresa fotografica ho sempre cercato i giochi di luce tipici della materia plasmata dal ritmo cromatico che si trasforma in un bianco e nero. Le immagini sembrano tutte possedere una luce comune.

È così?
«Ho fotografato sempre tra il mese di aprile e agosto, cercando una costante di luce. A volte in una settimana ho potuto scattare solo poche ore perché la luce non mi soddisfaceva».

Che città ti aspettavi di incontrare e quale città in questi cinque anni hai potuto scoprire?
«Mi sono lasciato trasportare e cullare da Milano. Ho trovato una città che si è riscoperta forte e orgogliosa. Un luogo dinamico, ricco di connessioni, che sta vivendo un vero e proprio Rinascimento».

La tua campagna fotografica racconta la città moderna e quella contemporanea, il suo continuo mutare e le molte stratificazioni che si sono susseguite negli anni. Che opera di scavo hai affrontato? Con quale metodo e con quale spirito?
«Un fotografo è per natura un osservatore. Il lavoro è stato quello di delimitare delle aree e di visitarle successivamente. Spesso di sabato e di domenica dove i luoghi prendono nuova veste per un processo di sottrazione. Lì, allora ti senti parte di quell’ambiente, a volte come unico e privilegiato spettatore».

C’è stato qualche luogo che hai documentato, ma che non sei riuscito a inserire nel libro?
«I luoghi fotografati sono stati davvero tanti e la selezione per il libro è stata molto complessa. La sequenza ritmica ha comportato l’eliminazione di alcune serie fotografiche perché avrebbero depotenziato il percorso. Nella parte dedicata alla Milano moderna, per esempio, a malincuore non ho inserito un’immagine su Piazza Meda verso il palazzo progettato per gli uffici della Chase Manhattan Bank dallo Studio di Architettura BBPR. L’intervento architettonico è molto importante, ma la fotografia non si legava con le immagini che precedevano e seguivano.

Quanti scatti hai realizzato in totale?
«Francamente non saprei darti il numero preciso di pellicole e di fotogrammi. In cinque anni direi tanti, ma mai come se avessi fatto il lavoro in digitale».

La mostra che hai in corso alla 29 Arts in Progress inaugura il nuovo sodalizio con la galleria e i suoi direttori, Eugenio Calini e Luca Casulli.
«Sono molto contento di questa opportunità e di poter lavorare con una galleria che pone al suo centro la fotografia con grandi maestri. Eugenio Calini e Luca Casulli sono due grandi professionisti e mi fa molto piacere che abbiano abbracciato i miei lavori. Altre tappe sono il MIA Photo Fair a Milano e stiamo pensando a una serie di attività che spero di raccontare presto».

È uscito da poco il tuo libro Changing Milano . Un’opera voluminosa e di grande qualità. Raccontaci di questo sforzo editoriale.
«Ti ringrazio per riconoscerne la qualità. Il progetto editoriale ha comportato tanti studi. Dal formato alla carta, al test di fotolito. Un lavoro di preparazione che è durato più di un anno. Ho scelto un grande formato per dare maggior risalto alle fotografie, che altrimenti sarebbero state penalizzate e tutta la grafica ha seguito il ritmo delle immagini. Il testo è tradotto in inglese e ha una parte introduttiva e una parte finale con un indice iconografico dove si raccontano i luoghi fotografati. La parte centrale si articola con un impianto narrativo per immagini, senza testi, perché il lettore non deve essere distratto».

In questi anni sei stato coinvolto in molti progetti che raccontavano i processi produttivi dell’industria italiana. Anche questa parte ha spazio all’interno del percorso espositivo?
«La mostra si articola in due momenti con immagini stampate ai sali d’argento in due formati differenti. Il 50×60 per l’architettura e il 30×40 per l’industria. Abbiamo pensato a una selezione che dialogasse sul rigore delle forme e sul loro disvelarsi. Il titolo è Le forme rivelate e racchiude proprio questo lavoro di selezione»

di Giovanni Pelloso

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