18 Novembre 2016 di Redazione Redazione

di Giovanni Pelloso


Artista, ricercatore. Il suo impegno è rivolto all’investigazione del rapporto uomo-natura-cultura, all’analisi dell’immaginario della società nell’era digitale, tra limiti, eccessi e virtù. Eclettico esecutore, mescola sapientemente l’elemento audio-visivo a un’opera performativa e di scrittura – è da poco uscito il libro L’isola che non c’è. Bari, quartiere San Cataldo (Linaria, Roma 2015). Esplorare la contemporaneità è ciò che interessa il suo essere artista e il suo agire espressivo. Un impegno che prevede l’engagement con l’interlocutore (attraverso l’opera). L’ultima mostra, conclusasi lo scorso gennaio alla galleria Rossana Ciocca di Milano, apriva uno squarcio sui mondi digitali rispetto al tema dell’informazione e dell’omologazione. Screenshots, questo il titolo della serie iniziata nel 2012, ha posto in luce ciò che è offerto, come patrimonio di conoscenza, digitando nel motore di ricerca Google-images alcune parole che nel vocabolario italiano riportano alla nazionalità e, dunque, all’identità. I termini scelti erano, tra gli alti, “tunisino”, “marocchino”, “rumeno”. Il risultato, raccolto in una serie di tavole, appartiene a un immaginario frutto di stereotipi e di pregiudizi. Il risultato della ricerca ha evidenziato un insieme costituito da foto segnaletiche e di cronaca giudiziaria. Nel guardare a questi prelievi si può misurare tutta la distorsione del mezzo, la distanza tra immaginario e realtà, il condizionamento dell’opinione pubblica, la banalizzazione del reale, l’ambiguità della comunicazione visiva. La stessa discordanza la si può rilevare investigando la parola “nigeriane” – qui tutto riporta al mondo della prostituzione e dello sfruttamento –.



Come artista, quali sono i luoghi della contemporaneità che più ti interessano investigare e ti coinvolgono?
«Sicuramente il Sud, le periferie industriali e le strade hanno per anni attirato le mie attenzioni. Contemporaneamente anche il mondo del web, dell’immagine digitale-numerica e dei pixel sono parte di quella contemporaneità vicina alla mia ricerca. Mi interessa analizzare il rapporto uomo-macchina, quindi i luoghi diventano abbastanza relativi. Che la relazione si sviluppi tra degli operai albanesi e il proprio strumento di lavoro (Vegla Ben Ustain, 2015) o tra le pagine di Google-images (Screenshots, 2015) è indifferente rispetto agli obiettivi».
Fotografia e video sono i tuoi linguaggi espressivi privilegiati. Quanto si integrano e quanto si distinguono nel tuo lavoro?
«Per rispondere a questa domanda devo partire da un assunto: la fotografia è stata un’invenzione e il cinema l’applicazione di quest’invenzione. Io sono arrivato al cinema seguendo questa logica, questa linearità d’evoluzione tecnologica. Arrivo al video dalla fotografia. I miei primi video erano delle fotografie in movimento in cui chiedevo ai venditori ambulanti che ritraevo, se potevano mettersi in posa per fare loro una foto, ma ingannandoli premevo il tasto “rec” e registravo dei video in cui emergono tutti i comportamenti relativi alla posa e al divenire immagine di queste persone. Uno di questi video si chiama 32 dicembre (2011) ed è sui venditori ambulanti di fuochi d’artificio che ogni fine anno si possono incontrare agli angoli delle strade della mia città natale, Bari. Da questo muovere la fotografia, renderla movimento, ma ancora in qualche modo statica, è stato poi naturale provarsi a sperimentare con il cinema vero e proprio. Essere così anacronista, ripercorrere il cammino che ha portato dall’immagine statica all’immagine in movimento e farlo nell’oggi, in chiave contemporanea, mi ha aiutato a comprendere alcuni meccanismi dei due mezzi. In molti miei lavori i due linguaggi si rincorrono e si sovrappongo a vicenda».


23 dicembre, still video, Bari, 2011

23 dicembre, still video, Bari, 2011


«Ho iniziato a collezionare delle prove colore, raccogliendole in modo seriale. In questo modo ho costruito un archivio di fogli colorati, che comprende oggi diverse centinaia di color test raccolti fra diverse città europee. Da subito ho percepito delle similitudini fra questi test e le opere del Bauhaus e dell’Astrattismo geometrico» Fabrizio Bellomo


Es geht einfach um Nummern, installation view, galleria Metronom, 2015

Es geht einfach um Nummern, installation view, galleria Metronom, 2015


L’anno scorso hai prodotto un progetto dedicato al mondo operaio. Eri a Tirana, in Albania. Cosa ti ha spinto sino a lì?
«Mi interessava approfondire l’identità dei lavoratori giornalieri che si mettono in vendita nei pressi di una grande rotonda alla periferia della capitale. La particolarità è che ogni lavoratore possiede accanto a sé il proprio strumento di lavoro. Sedute per strada, queste maestranze si propongono come se fossero delle prostitute; lo strumento consente a chi transita in auto di comprendere immediatamente l’offerta e di fermarsi per contrattare la prestazione. L’identità lavorativa di queste persone si capisce immediatamente, gettando una semplice occhiata. Per l’occasione ho realizzato un lavoro interdisciplinare (performance, installazione pubblica, video e fotografia). Ho assoldato uno dei lavoratori per realizzare/scrivere su un muro adiacente la rotonda la frase Vegla bën ustain. La scritta ricorda un detto popolare albanese che significa «Lo strumento fa il maestro». Il lavoratore che ho coinvolto ha realizzato la scritta attraverso l’ausilio del proprio mezzo, un martello pneumatico».


Vegla bën ustain, Tirana 2015

Vegla bën ustain, Tirana 2015


Oggi, dove tutto è immediato e dove non abbiamo più la capacità di stupirci, l’arte serve a qualcosa? Cosa può l’artista?
«Forse nell’oggi l’arte serve più a rallentare e a fermare che ad andare avanti. A guardare il passato per capire qualcosa in più dell’oggi. Un principio, diciamo, opposto a quello del Futurismo. Forse oggi l’arte serve a prendere dei lunghi momenti di pausa, a riflettere su cose che ci sono passate davanti troppo velocemente e subito sostituite da altre cose: scoperte, innovazioni, emozioni. Forse l’arte serve a questo. A guardare parti del nostro passato e ad analizzare in quale modo queste siano presenti nella nostra contemporaneità. A capire chi siamo attraverso l’analisi di un passato storico o personale che ci sfugge in questa quotidianità dove il tempo è subito sostituito da nuovo tempo da consumare».
Quali artisti italiani che hanno utilizzato la fotografia dagli anni Settanta a oggi hanno influenzato la tua crescita? E perché?
«C’è un libro di Italo Zannier, che ho sempre trovato molto interessante, dal titolo Sperimentalismi fotografici in Italia. 1970-2000. È una sorta di carrellata fra una serie di sperimentazioni visive di artisti-fotografi italiani. In molti dei lavori presenti si denota uno sforzo di analizzare e di mettere in discussione il linguaggio fotografico. Questo approccio all’immagine fotografica e ai meccanismi della rappresentazione mi interessata molto.
Tra le opere presenti nel libro, ricordo i Ritratti reali (1972) di Mario Cresci, Paesaggio interrotto (1976) e Vera Fotografia (1977) di Mimmo Jodice, le Polifanie (1983) di Nino Migliori e le Esposizioni in Tempo Reale di Franco Vaccari.


foto-bio-fabrizio-bellomoFabrizio Bellomo è nato a Bari nel 1982. Artista, curatore e regista, le sue opere audiovisive, fotografiche e installative sono state esposte in Italia e all’estero attraverso mostre, progetti pubblici e festival cinematografici. È stato invitato a plat(t)form 2015 Fotomuseum Winterthur (Zurigo), Double Feature Tirana Art Lab (Tirana), ArtAround MuFoCo Cinisello Balsamo (Milano), 2004-2014 10 anni del museo di fotografia contemporanea Triennale di Milano, Milano un minuto prima Fondazione Forma Milano, Objet Perdù e Giovane Fotografia di Ricerca in Puglia Fondazione Museo Pino Pascali – Polignano a Mare (Bari), Progetto Memoria Apulia Film Commission (Bari-Tirana), Video.it Fondazione Merz (Torino). Il suo lavoro è inserito in saggi critici, dizionari di cinema e fa parte di collezioni pubbliche e private. Nel 2012 vince a Roma il Premio Celeste con il video 32 dicembre. Il suo primo film è L’Albero di Trasmissione, co-prodotto dall’associazione culturale Amarelarte, Fujifilm Italia e Apulia Film Commission. Ha partecipato nel 2015, fra gli altri, al Festival dei Popoli di Firenze e alla trentaquattresima edizione di CINEMED, il Festival International du Cinéma Méditerranéen de Montpellier.

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