27 Agosto 2019 di Vanessa Avatar

Susan Meiselas ha vinto il premio Women in Motion for Photography, la cui missione è“un impegno nella difesa della dignità e diritti delle donne per combattere la violenza contro le donne e promuovere la loro affermazione e dignità”.
Fin dai primi lavori scopriamo l’attitudine partecipativa di Susan Meiselas, che invita i propri soggetti ad avere un ruolo attivo, accostando alle immagini la trascrizione delle loro parole. Viene così lasciato spazio all’altro, mettendo in campo diversi mezzi espressivi. Per l’autrice, che ha lavorato come fotografa, regista, scrittrice, questa resterà una costante. Prince Street Girls (1975-1990) raccoglie le immagini scattate nel corso di quindici anni alle giovani di Little Italy, quartiere di New York dove Susan vive ancora oggi. Seguendo la progressiva trasformazione del corpo e della vita delle giovani ritratte, si evidenzia come la fotografia non sia mai espressione di una verità definitiva, ma in continua evoluzione. L’asse centrale della mostra, e del percorso creativo di Susan Meiselas, è costituito da due serie fondamentali: Nicaragua e Kurdistan . Nel 1978 la fotografa si reca per proprio conto in Nicaragua, con lo scopo di testimoniare l’insurrezione popolare seguita all’assassinio del caporedattore de La Prensa , giornale di opposizione al regime. Gli scatti selezionati diventano un libro, pubblicato nel 1981, dal titolo Nicaragua: June 1978-July 1979 . L’opera riceve un’aspra critica da parte della collega Martha Rosler, che accusa l’autrice di aver trasformato un soggetto politico-sociale drammatico, come la rivoluzione, in una serie di immagini estetizzanti adatte a un catalogo d’arte. La risposta prende la forma di varie opere, tra cui Mediations (1978-1982). Esposta per la prima volta nel 2006, l’installazione è emblematica del processo di elaborazione creativa di Susan Meiselas.

Susan Meiselas

La pratica fotografica appare sempre in progress, con una costante attitudine alla mediazione. La presa di coscienza cui si arriva è che la diffusione delle immagini, attraverso i vari media, produce una proliferazione di significati incontrollabile da parte dell’autore. Allo stesso modo l’installazione The Life of an Image: Molotov Man (1979-2009), offre una ricontestualizzazione della foto iconica di Pablo Jesús Aráuz nell’atto di lanciare la bomba molotov, che fu emblema della rivoluzione sandinista e copertina del New York Times Magazine nel 1979. Trent’anni dopo, in Pictures from a Revolution (1991), il suo terzo film sul Nicaragua, Susan reinterroga le proprie immagini, e con esse gli individui, la storia, per comprenderne l’evoluzione. Continua così la pratica artistica, di pari passo con la relazione umana. E la rimessa in discussione che ne consegue, rende il lavoro ancora attuale. Kurdistan (1991-2007) nasce nel 1991, quando Susan parte per il nord dell’Iraq allo scopo di documentare il genocidio curdo ordinato da Saddam Hussein. All’arrivo, sconvolta dall’impossibilità di testimoniare il Kurdistan, decide che può fotografarne solo l’assenza, attraverso le immagini delle fosse comuni. Poi, la ricerca si sposta su fotografie, cartoline, documenti d’archivio. Raccogliendo i pezzi delle storie personali, drammaticamente disperse in mancanza di un archivio nazionale, cerca di ricostruire la storia del popolo curdo, scoprendo che esisteva una società civile costituita, anche se mai riconosciuta come nazione. Così, in qualche modo è come se la diaspora venisse raccolta, o quantomeno ravvicinata. L’analisi della violenza e del dolore segue come un fil rouge il percorso creativo di Susan Meiselas. Dalla violenza pubblica e statale alle forme di violenza più intima e privata. Lungo questa seconda linea, la ricerca si sviluppa attorno a due temi centrali, l’industria del sesso e la violenza domestica. Nell’ambito dell’industria del sesso, impossibile non citare Carnival Strippers (1972-1975), l’opera che fece conoscere al mondo Susan Meiselas e che le permise di entrare nell’agenzia Magnum (1976). L’installazione, composta da fotografie e registrazioni sonore, documenta l’ambiente dello striptease nelle piccole cittadine del centro America, dove Susan viaggiò al seguito di un vero e proprio carrozzone itinerante. Vent’anni dopo, Pandora’s Box (1995) può essere considerata il prolungamento di Carnival Strippers . La serie, realizzata nei club sadomaso di New York, svela l’esistenza di un altro rapporto con la violenza e il dolore, che qui è cercato e auto-inflitto per scelta. Restando nello spazio privato, ben diverso è il dolore al centro della violenza domestica. Susan lo affronta per la prima volta nel 1992, quando la città di San Francisco la chiama a partecipare a una campagna di sensibilizzazione sul tema. Nasce così il progetto Archives of Abuse , serie di collage che accostano alle immagini i documenti d’archivio della polizia. In questo caso, la scelta precisa dell’autrice è quella di far parlare l’istituzione che per dovere pubblico deve occuparsi di questa violenza. Nel 2015 Susan è invitata a prender parte a un progetto per raccontare le storie di donne sopravvissute a episodi di violenza domestica nella Black Country, regione nel nord dell’Inghilterra. A Room of their Own (2017) è la sua opera più recente, esposta per la prima volta in questa mostra, realizzata in collaborazione con Multistory, associazione che accoglie temporaneamente in centri specifici le vittime di violenza domestica, accompagnandole fino al reinserimento nella società. Nei video scorrono le immagini delle stanze vuote, alle quali sono sovrapposte le parole delle donne intervistate. Restano i luoghi, spazi che cambiano in funzione di chi li abita. La relazione che viene stabilita dall’autrice parla di assenza e di transitorietà. Susan farà poi dei ritratti di queste persone, ma solo successivamente, per segnare il loro ritorno alla vita. Come a chiudere il cerchio, torna in mente quella che Susan definisce come la sua prima fotografia, l’autoritratto che dà il via a 44 Irving Street (1971) dove l’immagine evanescente dell’autrice è sovrapposta allo spazio della sua stanza.

Susan Meiselas: la fotografia come lo spazio di una mediazione continua tra la presenza e l’assenza, l’apparizione e la sparizione, il sé e l’altro da sé, il mondo

La fotografia per Susan Meiselas rappresenta lo spazio di una mediazione continua tra la presenza e l’assenza, l’apparizione e la sparizione, il sé e l’altro da sé, il mondo. Se volessimo cercare dei riferimenti, potremmo dire che Susan Meiselas raccoglie l’eredità della fotografia sociale di Dorothea Lange, ma nello stesso tempo si confronta con riflessioni più recenti, come quelle di Martha Rosler o Allan Sekula. Per questi ultimi, la fotografia testimonia le ingiustizie del mondo, ma contemporaneamente crea, sempre, una nuova forma di ingiustizia. Peter Orborne ha coniato il termine “fotocapitalismo”, a identificare il regime di immagini imposte dalle società tecnologicamente avanzate che possono permettersene la diffusione. Si pensi al caso della Migrant Mother, fotografata nel 1936 da Dorothea Lange. Molti anni dopo, Florence Owens Thompson si recò dalla Library of Congress, chiedendo di cambiare quell’immagine che certificava un passato al quale lei non voleva più essere associata. La Library of Congress sentenziò che il cambiamento dell’iconica fotografia era ormai impossibile. Questo non succedferà mai con le immagini di Susan Meiselas. La fotografia non fissa una verità definitiva ma solo un momento che, limitato nello spazio e nel tempo, evolve di pari passo con la vita. Il dialogo è lasciato aperto, in modo che ci si possa, tutti, sempre, mettere in discussione.
Immagine in evidenza Susan Meiselas, Sandinistas at the walls of the Esteli National Guard headquarters: “Molotov Man” Estelí,
Nicaragua, July 16th 1979 © Susan Meiselas/Magnum Photos

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