12 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

La presentazione alla stampa della mostra Nature&Politics, al MAST di Bologna fino al 22 aprile, è stata l’occasione per ascoltare dalla viva voce del fotografo tedesco Thomas Struth le ragioni che lo hanno portato a “violare” siti industriali e di ricerca scientifica normalmente non accessibili al pubblico per restituirci immagini che indagano il rapporto tra uomo e macchina e il nostro modo di porci nei confronti della tecnologia. Fondamentali sono stati, nel percorso di avvicinamento di Struth alla scienza, la visita del Kennedy Space Center di Cape Canaveral e un viaggio in Corea che ha portato il fotografo a scoprire città e cantieri navali. «Proprio in quegli anni», ricorda l’artista, «ci fu un incontro sul clima in Danimarca (Conferenza ONU sui cambiamenti climatici 2009  ndr): fu un’occasione perduta perché non si raggiunse un accordo. Allo stesso tempo, con l’espansione dei social media – che io preferisco chiamare “asocial” media – sono rimasto molto colpito da questa ossessione per la tecnologia. Ho pensato allora di rendere disponibile attraverso la fotografia qualcosa che normalmente non è accessibile al pubblico. Ho pensato di diventare una sorta di antenna, uno strumento per rendere visibili le cose». «Con queste immagini», spiega Urs Stahel, curatore della mostra, «Struth si muove in zone proibite, in mondi il cui accesso ci è solitamente precluso, e ci mostra una serie di sperimentazioni scientifiche e ipertecnologiche, di nuovi sviluppi, ricerche, misurazioni e interventi che in un momento imprecisato, nel presente o nel futuro, in modo diretto oppure mediato, faranno irruzione nella nostra vita e ne muteranno il corso». Le fotografie di grande formato – scelto da Struth nell’ottica di un’attenzione al dettaglio che possa restituire la complessità dei luoghi e della tecnologia di cui sono pregni – ci restituiscono una “confusione” di oggetti, strumenti, cavi, giunzioni… un caos su cui, sottolinea Stahel, l’occhio dell’osservatore si posa con curiosità, in un confronto diretto con la tecnologia che noi stessi abbiamo prodotto: «Con il tempo impariamo a dare un nome alle singole parti, ce ne appropriamo integrandole nel nostro mondo noto, ma il grande nesso sfugge alla nostra comprensione e non ci resta altro che manifestare un grande stupore, a volte divertito, di fronte all’alterità sconcertante di questi “ingranaggi” ipertecnologici del presente e del futuro».

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