17 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Nel 1969, viene pubblicato un volume che testimonia l’allargarsi delle tematiche affrontate dai fotografi italiani: si tratta de I cinesi di Caio Garrubba (Napoli, 1923), il cui testo è affidato a Goffredo Parise. La sua presentazione testimonia del profondo interesse per la fotografia, ma è sintomatica della confusione o, forse, della scarsità di elaborazione criticofotografica dell’epoca. Parise infatti mette insieme la poetica bressoniana del momento decisivo, il crudo realismo cronachistico di Weegee e i ritratti di Marilyn Monroe di Avedon. A parte questo, il testo evidenzia come Garrubba avesse restituito l’anima della nazione maoista ancora intrisa della sua storia millenaria. Scrive al proposito Parise: «La Cina ha alcuni caratteri fondamentali, biologici, innanzitutto, poi culturali, estetici, formali; poi sociali e religiosopolitici. […] Garrubba li ha semplicemente, didascalicamente, dolcissimamente, colti tutti. […] ha colto il carattere fondamentale della Cina e del popolo cinese: il carattere popolare, collettivo e familiare. In tutte le fotografie, anche in quelle dove appare una sola persona, ma sono molto rare, è chiaro che quella persona non è mai sola, né fisicamente, né, per così dire, intimamente.» È evidente, in questa lettura, la diffidenza verso il regime totalitario e l’interesse per le radici culturali e le apparenti novità nella gestione del potere rispetto alla burocrazia sovietica. Non potevano immaginare, Garrubba e Parise, quanto la Cina, cinquanta anni dopo, sarebbe stata vicina all’Occidente e quale sviluppo economico avrebbe raggiunto con un esperimento inedito di capitalismo in salsa comunista.

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