16 Gennaio 2020 di giorgia Avatar

Luciano Viti ritrae i Mostri Sacri della musica. Le sue foto compaiono su centinaia di copertine tra riviste, libri e dischi, ma il mercato cambia: l’editoria entra in crisi e la grande risorsa diventa il suo immenso archivio. Ripartendo da questo, l’autore si tuffa in una nuova fase stimolante, selezionando il meglio della sua produzione in veste fine-art per rivolgersi al mercato delle gallerie e del collezionismo.

Luciano Viti: dall’editoria alla fine-art

Nei tuoi ricordi quando musica e fotografia si sono incontrate?
«Fin da bambino in casa mia erano presenti entrambe, si ascoltavano i 45 giri e si fotografavano gli eventi famigliari, io ero attratto dall’una e dall’altra. Quando andavo in gita scolastica, la mamma mi affidava una Comet Bencini per fotografare luoghi e situazioni. La foto di gruppo della terza elementare esiste perché fui io a scattarla. Nel 1969 andai per la prima volta a un concerto – era a Roma alle Terme di Caracalla – e ricordo che dissi a me stesso quanto avrei voluto fare delle foto. Era ancora un sogno perché, da adolescente, non avevo le possibilità economiche per acquistare un’attrezzatura adatta. Solo più tardi mi fu regalata una Pentax Spotmatic 1000, e il mio vero battesimo lo considero il concerto dei Led Zeppelin a Zurigo nel 1980».

Quando sono sul set mi trasformo e divento un’altra persona. Sono totalmente concentrato come un pilota in gara. Non esiste nulla al di fuori, e se anche sparassero una cannonata a un metro da me non me ne accorgerei.

Dopo una lunga e intensa carriera nell’editoria, negli ultimi tempi ti sei riappropriato del tuo archivio per riproporre alcuni ritratti ormai storici in chiave fine-art. Parlaci di questo passaggio.
«Si tratta di sfruttare economicamente l’archivio in modo nuovo, mentre le mie collaborazioni editoriali dirette sono quasi del tutto finite. Il mercato è crollato, ma ho la fortuna di avere un archivio ricco di immagini importanti riguardanti dei giganti della storia mondiale della musica. Ho deciso così di rivisitare la mia produzione passata attualizzandola alle nuove richieste come, per esempio, il collezionismo. Negli anni Novanta mi avvicinai alla galleria di Mario Peliti, a Roma, e iniziai così. Poi, nel 1997 l’Hard Rock Cafè di Orlando, in Florida, acquistò cinquantaquattro stampe. Spuntarono nuove collaborazioni con gallerie straniere e così m’inoltrai in questo nuovo percorso. Nel mio caso, va detto, posso contare su due mondi di collezionisti: quelli interessati all’opera fotografica in sé e quelli innamorati di uno specifico artista».

Miles Davis © Luciano Viti


Hai un archivio immenso. Rovistando in quell’oceano di immagini, ti capita che saltino fuori delle perle del tutto dimenticate donandoti, a distanza di anni, il brivido della scoperta?
«Recentemente, cercando vecchie foto di Pino Daniele, in una scatoletta di diapositive ho trovato uno scatto stratosferico risalente al 1992 di cui mi ero completamente dimenticato. Lui che, uscendo dalla piscina, mi guarda sorridente facendomi le corna. Una foto mai vista da nessuno. Quando è morto Barry White, pur non amando particolarmente quel genere musicale, tra me e me rimpiangevo di non averlo mai fotografato. Mi ricordavo male, tempo dopo, riordinando l’archivio, trovai una busta di negativi con il suo nome scritto sopra».
Non hai dedicato un trittico a Pino Daniele?
«Dovrei cercare in un mare di foto. Il fatto è che lui, in verità, non amava posare. Della fotografia non gli importava un granché. In sostanza, mi lasciava operare in maniera spontanea, ma non potevo chiedere nulla di organizzato. Pino passava il suo tempo tra musica e casa, lontanissimo dal divismo e dalla mondanità. Se devo pensare a un suo trittico, non mi vengono in mente delle espressioni, ma piuttosto una sequenza di lui che fa finta di suonare una chitarra immaginaria, col gioco e l’ironia di cui a volte era capace».

Frank Zappa © Luciano Viti


Svelaci un retroscena curioso di uno dei ritratti che pubblichiamo.
«Durante lo shooting con Miles Davis sembrava che la malasorte si fosse accanita sulla mia attrezzatura. Prima si era fulminato un flash e nel tentativo di sostituire immediatamente la lampada, ancora rovente, mi bruciai le dita. Poi si bloccò la Zenza Bronica 6×6 con cui stavo lavorando. Fortuna che, essendo molto scrupoloso, ho sempre con me dell’attrezzatura di riserva. Questo mi ha dato la possibilità, seduta stante, di sostituire tutto e di proseguire nel lavoro».
Quale personaggio rimpiangi di non aver mai potuto fotografare?
«Bob Dylan, ma anche Paul McCartney. Bob Dylan sono riuscito ad avvicinarlo una sola volta; mi colpì il suo enorme carisma. Quanto a fotografarlo non ci fu modo di convincere il suo tour manager. Con McCartney arrivai a un passo dal ritrarlo. Era il 1989, avevo un appuntamento per realizzare la copertina del Radiocorriere TV. Purtroppo poi la copertina saltò e con essa anche lo shooting».

L’intervista completa a cura di Leonello Bertolucci è nel numero 319 de Il Fotografo ancora per pochi giorni in edicola (qui in versione digitale).

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