26 Ottobre 2019 di Giovanni Pelloso Avatar

Alain Laboile

Una vecchia casa immersa nella campagna bordolese, con un ruscello in fondo al grande giardino, è diventato il suo gigantesco studio all’aperto. Alain Laboile guarda ai suoi sei figli e cattura in un mondo in bianco e nero l’inaspettato, il gioco, la frenesia, l’istante quotidiano, l’impegno del giorno. La materia della sua azione fotografica è la vita quotidiana nelle sue infinite dimensioni. Artista, all’età di 36 anni acquista la sua prima macchina fotografica con il desiderio di documentare le sue sculture. Appassionato di entomologia, fu sedotto inizialmente dalle macro fotografie per poi incontrare il suo soggetto: la famiglia. All’inizio gli insetti, poi la famiglia nel suo vero habitat. Quaranta fotografie tra le più importanti e significative realizzate da Alain Laboile sono in mostra fino al 28 dicembre alla 29 Arts In Progress Gallery diretta da Eugenio Calini e Luca Casulli. A esprimersi, in uno stile intenso a cavallo tra la ritrattistica e il reportage, un mondo dalle trame avvolgenti esaltate, nella monocromia delle forme, da luci e ombre.

Intervista a Alain Laboile

Da quando hai adottato la casa e il giardino come tuo studio fotografico? Raccontaci di questa scelta e della decisione di vivere in una dimensione che appare “fuori dal tempo”.
«Dodici anni fa la casa nel bordolese è diventata il nostro luogo di vita. Ho imparato a conoscerne gli spazi, le luci, le consistenze. La mia pratica fotografica in questi luoghi si è imposta naturalmente. È comodo per me fotografare, qui, il mio soggetto preferito: la vita atipica della mia tumultuosa e numerosa famiglia. È una vita più lenta, ritmata dal passare delle stagioni. Non è una vita fuori dal tempo, ma una vita dove il tempo sembra talvolta sospeso».

Cosa raccontano le tue immagini? E cos’è per te il valore e la forza della fotografia?
«Le mie immagini si riferiscono alla quotidianità e alla vita in famiglia. Quello che era all’inizio un semplice album dei ricordi si è trasformato in strumento di trasmissione di un patrimonio legato ai miei figli e alla loro discendenza. La mia fotografia costituirà una testimonianza sociologica del nostro passaggio sulla Terra».

La scultura è ancora parte del tuo essere artista? Quanto quest’arte ti appartiene ancora?
«Ho sempre creato con le mie mani. L’incontro con mia moglie nel 1990, studentessa in Storia dell’Arte, mi ha aperto alla pratica artistica, principalmente alla scultura. Ho sperimentato tecniche e materiali differenti, prima di concentrarmi sul lavoro con l’acciaio. Oggi viaggio molto e il tempo è talvolta tiranno, ma realizzo ancora delle creature monumentali e fantasmagoriche per i miei figli».

La tua predilezione per il bianco e nero è evidente. È dettata da una precisa scelta stilistica?
«La maggior parte delle mie fotografie è in bianco e nero. Questo conferisce atemporalità e universalità. Sporadicamente s’impone il colore. Sono incapace di razionalizzare le ragioni di questa scelta che mi viene imposta dal mio sentire. Per contro, so sistematicamente se conserverò l’immagine a colori o la convertirò in bianco e nero già dal momento dello scatto».

La riconoscibilità internazionale arriva con la pubblicazione del tuo lavoro sul New York Times  nel 2012. Da allora le tue fotografie sono state esposte in tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. Com’è vissuta all’interno della famiglia quest’attenzione mediatica e questa loro esposizione all’interno del circuito dell’arte contemporanea?
«Nel 2012, mentre esponevo in Cambogia in occasione di Angkor Photo Festival, il mio lavoro è stato notato e inviato al NY Times che ne è stato sedotto. Un primo riconoscimento internazionale e l’inizio di un’avventura familiare. Ognuno ha il suo ruolo. Così il mio primogenito è stato per lungo tempo il mio interprete, perché il mio inglese è zoppicante. Le figlie più grandi gestiscono i social network e seguono la parte grafica. Mia moglie si occupa della mia agenda, spostamenti, viaggi e aspetti di comunicazione. Facciamo regolarmente degli incontri di raccordo in famiglia. La fotografia non ha mai costituito una costrizione per i miei figli perché non domando mai loro di posare. Sono ben coscienti che la fotografia ci ha aperto al mondo. Consideriamo tutti che è una fortuna e un’opportunità e condividiamo insieme l’orgoglio di questo riconoscimento».

 
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Immagine in evidenza
Où est le prince,
2013

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