3 Gennaio 2020 di Vanessa Avatar

L’avventura del bianco e nero

Quando la fotografia viene scoperta – o inventata – il mondo diventa improvvisamente in bianco e nero. Una necessità e un limite che, con l’avvento del colore, si trasforma in una scelta consapevole e virtuosa. Un battito di ciglia durato otto ore. Tanto impiega Joseph Nicéphore Niépce nel 1826 per realizzare la prima fotografia della storia: una vista sui tetti a Le Gras, in Borgogna, ottenuta cospargendo una lastra di stagno con bitume di Giudea ed esponendola alla luce del sole dalla finestra del suo studio. Neanche a dirlo, si tratta di un’immagine approssimativa e labile in bianco e nero. Dopo diversi tentativi per  perfezionare le tecniche di Niépce, Louis Daguerre mette a punto un procedimento di ripresa più rapido e in grado di restituire soggetti più dettagliati, la dagherrotipia, presentata al pubblico nel 1839. In seguito, vengono introdotte nuove tecniche al collodio umido e all’albumina con cui nel 1855 Roger Fenton riprende le prime immagini di guerra della storia al seguito dell’esercito britannico in Crimea. Intanto, i pittori avvertono la minaccia dell’invenzione meravigliosa per i loro affari e, per scoraggiare i clienti affascinati dall’idea di farsi ritrarre con il nuovo strumento, accusano la fotografia di scarsa artisticità poiché generata da un processo tecnico. Salvo utilizzarla in privato, benché ancora monocromatica, per riprendere scorci e vedute da riprodurre su tela, nel chiuso dei loro atelier. Anche la fotografia, dal canto suo, verso la fine dell’Ottocento, cerca di avvicinarsi allo stile e al linguaggio dei dipinti, imitandone le atmosfere sognanti in languidi ritratti e paesaggi sfocati come quelli dei pittorialisti Julia Margaret Cameron, Eugène Durieu e l’italiano Guido Rey. Ma la vera rivoluzione tecnologica, oltre che culturale, arriva nel 1925 con la Leica I, piccola e leggera fotocamera 35mm funzionante con rulli di pellicola preforata. Un’invenzione che darà forte impulso al reportage e farà la fortuna di riviste come «Time» e «Life», sempre più ricche di immagini, perlopiù in bianco e nero. I costi della stampa a colori sono ancora troppo alti fino alla metà del secolo scorso. La crescente richiesta di conoscere i fatti del mondo porta, nel 1947,  alla nascita dell’agenzia fotogiornalistica Magnum Photos. Nel frattempo, oltreoceano il presidente Roosevelt istituisce nel 1937 la Farm Security Administration per documentare le condizioni di vita nelle campagne e nelle città degli Stati Uniti dopo la Grande Depressione e ingaggiando alcuni fotografi tra cui Walker Evans, Gordon Parks e Dorothea Lange. Tutto questo mentre in Europa soffia un vento diverso: quello dell’immagine à la sauvette, dell’istantanea colta al volo, magari di nascosto, così coniata da Henri Cartier-Bresson. Naturalmente, poeticamente, in bianco e nero.

L’avventura del bianco e nero: lo scenario italiano

L’inizio del percorso visivo è segnato dalla scena amatoriale che ha avuto un grande seguito nel Secondo Dopoguerra, intorno a due principali orientamenti iniziali: quello della fotografia dai toni alti, intesa come “pura arte”, sostenuta da Giuseppe Cavalli e dal gruppo “La Bussola”, e quello di Paolo Monti, fondatore del Circolo “La Gondola”, fedele a un linguaggio rigoroso sotto l’aspetto tecnico e formale e all’idea del documento come prova del reale. Un corposo filone dei maestri italiani del bianco e nero accoglie i grandi del fotogiornalismo, eredi del pioniere di questo genere in Italia, Adolfo Porry-Pastorel, arguto reporter e irriverente paparazzo ante litteram attivo dai primi del Novecento e per tutto il Ventennio. Dal Secondo dopoguerra c’è spazio per tutti: cronisti della ricostruzione e reporter militanti, paparazzi e ritrattisti, fotografi di moda, sperimentatori e concettuali, antropologi e paesaggisti, fan della pellicola e dei sensori digitali. Per tutti loro il bianco e nero non è solo una scelta dettata dai tempi o da ragioni pratiche, né un vezzo estetico. È, invece, un modo deliberato di entrare in relazione con la realtà e con il visibile per coglierne i significati meno espliciti. Un linguaggio che toglie in superficie per restituire in profondità, riducendo i soggetti alle loro forme essenziali e rinunciando alla prosa fin troppo prevedibile del colore.

Immagine in evidenza

La postazione del lustrascarpe, Sud-Est degli U.S.A., 1936, Walker Evans. FSA/OWI/Library of Congress

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