Al Museo Diocesano di Milano, cinquanta fotografie di Livio Senigalliesi raccontano le guerre “dalla parte della gente”.

21 Novembre 2022 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

Dal 25 novembre 2022 all’8 gennaio 2023, il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano rende omaggio a Livio Senigalliesi con Diario dal fronte, una retrospettiva che ne ripercorre l’intera carriera.

Fotoreporter tra i più apprezzati a livello internazionale, in circa trent’anni di lavoro, Senigalliesi ha documentato i conflitti più sanguinosi degli ultimi decenni, sempre stando in mezzo alla gente. Condividendone pericoli e sofferenze.

La mostra di Livio Senigalliesi al Museo Diocesano

Curata da Barbara Silbe, la mostra riunisce cinquanta fotografie in bianco e nero e a colori, raccolte in numerosi scenari di guerra, dal Medio Oriente al Kurdistan, dal Kuwait all’Unione Sovietica, all’Africa a molti altri.

Livio Senigalliesi, Congo, 2003. Profughi si affollano intorno al comando della MONUC in cerca di cibo e protezione.

Commenta la curatrice: «Le fotografie di Livio Senigalliesi non sono affatto belle. Sono dure, sconvolgenti, fanno piangere. Vengono esposte per ricordarci che ogni guerra è un inferno di sofferenze indicibili. In quegli inferni, Senigalliesi si è calato per trent’anni, spinto dal senso per la verità e osservando il mondo con sincera partecipazione».

«Il percorso espositivo presenta scene riprese da vicino, stando dentro alle vite delle persone afflitte, condividendone i pericoli, il freddo o la fame, percorrendo come un antropologo gli stessi sentieri di fuga o tornando negli stessi luoghi per anni, per percepire i cambiamenti o raccogliere i ricordi dei superstiti».

«Sono inquadrature vere, scomode, dove l’estetica passa in secondo piano rispetto al messaggio, per alimentare in noi la memoria e una coscienza critica contro l’odio che si ripete identico a ogni latitudine. I molti racconti prodotti fanno oggi parte di un vasto affresco sulle contraddizioni dell’umanità, una moderna Guernica composta un pezzo alla volta per consentirci di ricordare».

L’intervista di Barbara Silbe all’autore

In occasione della mostra di Livio Senigalliesi a Milano, vi proponiamo parte dell’intervista di Barbara Silbe all’autore, pubblicata sul numero 334 de IL FOTOGRAFO.

Come si raccontano le guerre?
«Nell’epoca del giornalismo embedded, le stragi dei civili sono diventate un effetto collaterale. In questo mondo che corre veloce, senza approfondire criticamente i fatti, ho scelto di viaggiare in direzione ostinata e contraria. Le mie immagini sono scattate da vicino, stando in mezzo alla gente che soffre, condividendo con loro i pericoli, il freddo, la fame, percorrendo gli stessi sentieri di fuga e tornando nei luoghi per anni per vederne i cambiamenti o raccogliere le storie dei sopravvissuti».

«Sono scene vere, scomode, perché alimentano in noi la memoria e una coscienza critica contro la guerra. Non esiste post-produzione. Pubblico quello che vedo».

Livio Senigalliesi
Livio Senigalliesi. La Città Vecchia di Gerusalemme vista attraverso il filo spinato.

Perché hai scelto di fare questo mestiere?
«Ho inseguito la storia. La fotografia era solo uno strumento di indagine sociale direttamente collegata al mio impegno politico degli anni Settanta. Mi serviva per testimoniare quello che avveniva negli ambienti operai e della sinistra. Vengo da una famiglia povera, il giorno dopo aver finito il servizio militare sono andato in fabbrica. All’inizio mi facevo prestare la macchina fotografica da un amico per riprendere gli scontri di piazza, gli scioperi di una Sesto San Giovanni e di una Milano barricadiere».

«Poi le prime collaborazioni con i giornali, il primo Gran Premio di Formula 1 a Monza e la fotografia sportiva che mi portò in giro per l’Europa grazie a Mauro Valentinuzzi che mi insegnò i segreti del mestiere. Ero però più attratto dalle questioni sociali e nell’82 fui assunto a Roma da Il Manifesto, redazione di intellettuali dove imparai tanto. Il reportage allora lo si studiava praticandolo, non c’erano scuole di specializzazione».

Memoria e storia. Sono questi i temi determinanti della tua carriera?
«Volevo testimoniare ciò che si svolgeva al fronte perché non venisse dimenticato. E l’ho fatto sempre attraverso una lunga permanenza nei luoghi e una vicinanza con le persone. Sono stato definito un fotografo-antropologo, perché applico la tecnica dell’osservazione partecipante: vivere con gli altri per raccontarli».

«Durante i conflitti vedi contrapporsi persone che prima erano fratelli, amici, vicini di casa, e che di colpo arrivano a odiarsi a causa della diversa matrice identitaria. Si ammazzano, come nei Balcani, perché il loro cognome ha una desinenza diversa. Anche in Ruanda fu così. A Sarajevo cadeva una bomba ogni cinque secondi. Il generale serbo Ratko Mladic aveva ordinato “Appiattitegli la mente!”».

«Sono stato quattro anni senza cibo né acqua né riscaldamento, pur di vivere le stesse esperienze delle persone. I miei vicini di casa erano una fonte inesauribile di storie. Raccontai anche quella, rischiosa, del cecchino che sparava regolarmente alla mia finestra, ma l’avventura più folle fu quella per entrare in Cecenia. Per vedere con i miei occhi la condizione dei civili massacrati dalle forze russe, mi travestii da medico e mi infilai in un convoglio di aiuti umanitari. Grozny era in macerie come Stalingrado. I feriti nascosti negli scantinati delle case bombardate. Scene atroci, arti amputati senza anestesia. Quelle urla tormentano le mie notti».

Info

Museo Diocesano Carlo Maria Martini, Piazza Sant’Eustorgio 3, Milano

Orari: da martedì a domenica, ore 10-18. Chiuso lunedì.

www.chiostrisanteustorgio.it

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