5 Maggio 2019 di Vanessa Avatar

Il perturbante – asseriva Sigmund Freud agli inizi del secolo scorso – è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Una termine concettuale, mutuato dall’aggettivo sostantivato tedesco Unheimliche, ancora oggi utilizzato in ambito estetico per indicare quella particolare sensazione, collegata alla paura, che si sviluppa quando ciò che vediamo in un’opera d’Arte viene avvertito come familiare ed estraneo allo stesso tempo, provocandoci reazioni di intima e generica angoscia, a cui si aggiunge una fastidiosa sensazione di confusione
ed estraneità. Ciò che genera questa sorta di paura è infatti un qualcosa di indefinito e di non-familiare che, nascosto tra le pieghe di una struttura tensiva (una struttura che induce nello spettatore delle aspettative e lo conduce avanti fino a risolverle) apparentemente ordinaria, spalanca la porta dell’inconscio all’ignoto, all’enigmatico, all’imprevisto.

Roger Ballen e i  paesaggi interiori

Una dimensione percettiva inconsueta, che è però possibile sperimentare in prima persona soffermandosi, ad esempio, di fronte alle fotografie di Roger Ballen. Improbabili anatre dalle fattezze antropomorfe, uomini prigionieri di cavi, arredi, reti metalliche e fili elettrici, sguardi e rigidità cadaveriche, e poi una sequenza infinita di teste senza corpi, corpi senza teste, braccia senza busto, piedi senza gambe, veri e propri tableaux vivants creati ad arte da Ballen attraverso un delicato equilibrio compositivo. Gli oggetti, gli animali e le persone che vediamo raffigurati nelle sue fotografie sono infatti reali: nessun artificio, se non quelli normalmente concessi dall’inquadratura, o meglio, dall’atto fotografico.
Una grammatica visiva elaborata e fuori dal comune, dunque, un’approccio stilistico inconfondibile che riesce a esaltare il significato profondo di ogni immagine, e che, inaspettatamente, vede affondare le proprie radici nel solco della fotografia documentaria più tradizionale. Tuttavia, è proprio questo particolare stile espressivo, maturato nel corso degli anni e frutto di un’innata attitudine all’introspezione, che ha permesso a Ballen di dar vita a una serie di immagini capaci di scandagliare l’animo umano e di spiegare, grazie ai prodigi del fotografico, ciò che significa essere un animale umano, ovvero un essere vivente condannato costantemente a subire e combattere il caos delle proprie più inconsce e primitive pulsioni. Fotografie ambigue, visionarie, talvolta ironiche e commoventi, più spesso ciniche e brutali, se non addirittura feroci, ma tutte specchio di intricati paesaggi interiori. Scatto dopo scatto, è perciò riuscito a imprimere sulla
pellicola una serie di visioni intrise di un vibrante esistenzialismo, quasi fossero prodotte direttamente dal suo inconscio. Immagini che, proprio in virtù della loro densità di significato, possono essere considerate, nel loro insieme, un’accurata descrizione dell’universalità della condizione umana. Un insieme di impressioni stonate inanellate sul filo dell’inquietudine che, strisciando, si insinuano sotto pelle, generando in chi guarda uno stato emotivo particolare, prossimo a un fascinoso e perturbante sgomento.

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