26 Aprile 2019 di Vanessa Avatar

Sono trascorsi 33 anni dal primo disastro nucleare classificato come livello 7 della scala Ines – è ancora oggi considerata dagli esperti la più grande catastrofe della storia del nucleare civile –. All’una e ventitré del mattino, la prima di una violenta successione di esplosioni nella centrale Lenin di Chernobyl, in Ucraina, determinò lo sprigionarsi di enormi quantità di radiazioni in atmosfera (cento volte maggiori delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki nel 1945). Il fall-out di materiale radioattivo fuoriuscito dal reattore raggiunse, dapprima, le regioni più prossime e successivamente l’Europa. Oltre alla Finlandia e alla Scandinavia, la nube toccò l’Italia, la Francia, la Germania, la Svizzera, l’Austria e i Balcani. Se il rapporto ufficiale dell’OMS conta 65 morti accertati e stima in quattro-novemila i decessi dovuti a tumori e leucemie in ottant’anni, alcune associazioni ambientaliste, tra le quali Greenpeace, ipotizzano numeri ben più allarmanti in quest’arco di tempo, dalle centinaia di migliaia di individui ad alcuni milioni per cause riconducibili al disastro. La grande beffa è che tutto scaturì da un test definito “di sicurezza”

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