23 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

L’ oggi si nutre di un’insaziabile sete di conoscenza, di un generale bisogno creato e alimentato dall’incessante successione di informazioni visive, dell’interminabile sequela di “voci dell’ultima ora” che quotidianamente percorrono il mondo, che invecchiano e si dimenticano nel giro di poche ore, succedendosi numerose e istantanee. La comunicazione di fatti di cronaca, così come di eventi culturali, di nozioni storiche o di visioni artistiche del mondo avviene in sintonia con il rapido succedersi degli interessi di una società in continua evoluzione. Tanto eterogeneo bisogno di sapere costituisce la matrice ideologica di un meccanismo informativo che, sulla piattaforma digitale, ha permesso la raggiungibilità di ogni dove e di ogni quando e che, di fatto, ha reso possibile la democratizzazione della conoscenza. Si può forse dunque parlare dell’estetica del provvisorio, prendendo a prestito una definizione che la sociologia mise a punto per tentare di catturare fenomeni e comportamenti negli anni Sessanta, caratterizzati dal consumismo sfrenato. A me pare incredibile come quella definizione sia tornata di estrema attualità, nonostante uno scenario economico totalmente opposto. Naturalmente ci riferiamo soprattutto al mondo delle immagini e la riflessione è nei confronti della destinazione finale di queste: la condivisione. E questo è un desiderio destinato a essere incredibilmente breve, effimero appunto. È come se non ci fosse più lo spazio per la memoria. Si condivide un presente che diventa subito passato. Insomma, si producono moltissime immagini, condannate a non resistere nel tempo.

Il ruolo del fotografo come narratore

Noi vogliamo soffermarci sulle storie e ribadire quanto sia importante continuare a raccontare. Abbiamo cercato di mettere in evidenza il ruolo del fotografo come narratore. Lo storyteller , come si dice oggi. In una mitica intervista, pubblicata sul Corriere della Sera  nel 1993, lo scrittore Daniele Del Giudice dialoga con Wim Wenders a proposito di cinema e di fotografia. Partono da Friedrich, che «negli ultimi anni della sua vita ebbe un presentimento della fotografia, dipingendo nel 1835 una serie di quattro immagini trasparenti su carta, che intelaiate dovevano vedersi in uno spazio totalmente buio con l’ausilio di una scatola illuminata da una lampada e l’accompagnamento di una musica. Più tardi avrebbe disegnato un paesaggio notturno in cui la luna era un circoletto ritagliato, un buco attraverso il quale far passare direttamente la luce della luna. Più in generale c’è chi sostiene che la finestra così spesso usata da Friedrich per inquadrare le sue ultime vedute possa intendersi come un protobbiettivo o un anticipo di schermo cinematografico, e la stanza che dobbiamo presupporre al di qua dei vetri una sorta di camera oscura; ma ciò che conta, oltre naturalmente alla pittura di Friedrich, è l’enorme investimento sul vedere, sulla rappresentazione». Insomma, Del Giudice ci sta parlando dell’importanza del punto di vista. Ci sta dicendo di come sia fondamentale prendere posizione. Costruire le immagini con il pensiero. Piegare la tecnica alle esigenze della propria creatività. E, descrivendo gli scatti a colori di Wenders, i due convengono su una riflessione comune: «Ogni secolo ha le sue rovine e un suo modo di metterle in immagine facendone paesaggio: le nostre rovine hanno questo di particolare, sono rovine del presente, non custodiscono memoria né portano tradizione, non hanno fatto in tempo ad accumulare tempo, alcune sono già rovine alla nascita».

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