2 Agosto 2018 di Redazione Redazione

Andrea Rovatti: la ricerca metafotografica

di Francesca Marani
Andrea Rovatti è un autore eclettico, capace di muoversi con disinvoltura tra grafica e fotografia, senza il freno delle sovrastrutture di pensiero che rifuggono contaminazioni e ibridazioni tra differenti forme artistiche. L’autore agisce con estrema fluidità, mosso dalla fascinazione della sperimentazione e dalle infinite possibilità visive offerte dalla moltiplicazione delle immagini. In questa intervista si racconta a partire dalle primissime esperienze di gioventù.
«Mi ha sempre attratto la rappresentazione che coniuga realtà e immaginario e, ben presto, ho iniziato a lavorare con immagini sequenziali, ripetitive, capaci di creare modalità nuove di percezione visiva» Andrea Rovatti
La passione per la fotografia si è sviluppata con l’inizio dell’attività lavorativa. A sedici anni, quando ancora andavo a scuola, nel pomeriggio lavoravo in uno studio di fotografia di moda poi, una volta finite le superiori, ho avuto l’occasione di fare da assistente a Enzo Mari, designer di fama internazionale, e lì mi sono innamorato anche del graphic design, iniziando un percorso che non ho più abbandonato, dove grafica e fotografia convivono e interagiscono. In particolare, durante la progettazione delle copertine per Boringhieri, basate sulla scomposizione di una stessa fotografia in quadranti, sono rimasto affascinato dal fatto che la fotografia originaria, attraverso lo scostamento dell’inquadratura, si ricomponesse in una nuova immagine. Da allora, la ricerca sequenziale, ripetitiva e a scacchiera delle immagini fotografiche è stata, spesso, il leitmotiv della mia attività professionale, come mostrano le ricerche fotografiche Multivisione, Strisce, Lastra smaltatrice o i progetti grafici per i cataloghi Marca Corona, TDA, il calendario Natuzzi, CartaSi. Ciò che mi attrae è la possibilità di soffermarmi sui dettagli, addentrarmi nelle cose per poi avventurarmi nelle procedure di creazione delle immagini stesse, catturate attraverso l’occhio del fotografo e la sensibilità del grafico. Le mie opere partono sempre da un close up, da un dettaglio che reitero, dando vita ad un’astrazione che immediatamente si allontana dallo scatto iniziale, capace di attuare uno scollamento con la realtà. I nove rettangoli consentono di ottenere un’immagine che colloquia con se stessa in ogni direzione e che ripetendosi crea delle giunzioni, delle variabili formali che prima non esistevano, trasformandosi nell’immagine di un’immagine.


Ritmi, allegorie e situazioni ambigue sono quindi alla base dei miei lavori proprio perché il significante si distacca dal significato, consentendo di operare su due livelli distinti di percezione. Nel 1985, epoca in cui insegnavo nel laboratorio di fotografia all’ITSOS Albe Steiner di Milano, ho cominciato una ricerca personale sulla fotografia di dettagli della natura. Osservando le forme e le strutture naturali, così perfette e ieratiche, ci si rende conto dell’esistenza di trame ricorrenti, una complessità che però, paradossalmente, ci riconduce all’essenza delle cose stesse e di conseguenza forse anche di noi stessi. Le texture che ci circondano sono infinite e alcune cambiano a seconda dell’attimo in cui sono catturate: è per questo motivo che la mia ricerca in tal senso non è conclusa, anzi è in continua trasformazione. Negli anni Novanta realizzo la serie Sequenze, attraverso l’accostamento di un modulo di sei figure a tema, che poi diventeranno nove immagini reiterate a partire dal 2005 e prenderanno il nome di Texture Nel 2010 la mia ricerca sulle texture subisce un nuovo cambiamento quando l’attenzione si rivolge alle architetture urbane: nasce, così, Urban Texture. L’architettura è senza dubbio uno dei soggetti che prediligo perché si presta a una riflessione sullo scorrere del tempo che mi interessa molto. Io guardo all’architettura come sedimentazione del tempo che passa; leggere l’architettura di una città significa osservarne la stratificazione storica e culturale. Ho iniziato con Milano, riscoprendone la bellezza, e proseguito con Venezia, una vera e propria sfida, per approdare infine a New York e Los Angeles. Ora l’indagine sul tempo si è evoluta anche al di là della ricerca sul soggetto: se prima riproducevo nove volte la stessa identica fotografia, adesso utilizzo nove scatti diversi, intervallati da frazioni di secondo. Mi piace pensare che nella riproposizione della stessa apparente fissità sia presente, invisibile, lo scorrere del tempo. Se nelle texture naturali ho voluto meditare sulla potenza della natura e sulla sua capacità di riproporre sempre l’equilibrio in un contesto dove l’uomo non compare, con le Urban Texture mi sono concentrato sul cambiamento del paesaggio naturale dovuto alla presenza dell’uomo e alla sua realtà urbana. Le mie immagini sono spesso labirintiche, respingenti e familiari al tempo stesso, capaci di disorientare l’occhio dello spettatore, ma anche di incuriosirlo e di invitarlo a guardare con più attenzione”.

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