1 Luglio 2016 di Redazione Redazione

di Francesca Marani


«Sentiamoci il prima possibile perché poi andrò nel deserto per qualche giorno e allora non so quando potremo parlare di nuovo». Questo è quello che può succedere quando si ha l’opportunità di intervistare Margaret Courtney-Clarke, fotogiornalista conosciuta in tutto il mondo per le celebri pubblicazioni sull’arte africana femminile e, soprattutto, donna di tempra eccezionale, capace di fronteggiare il deserto da sola e senza paura, proprio come le insegnarono i genitori fin da bambina, quando viveva in una grande tenuta ai confini del deserto namibiano.


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


«Mio padre e mia madre sono di origine anglo-irlandese, mio nonno era governatore dell’Africa del Sud-Ovest, inviato qui dalla Società delle Nazioni, in seguito alla stipulazione del Trattato di Varsavia. Ho trascorso un’infanzia molto bella in Namibia, a stretto contatto con la natura e gli animali. Il deserto fa parte del mio animo, ci sono cresciuta dentro». Per questo non bisogna stupirsi se Margaret sa cacciare, costruire frecce, scavare tra le rocce per cercare l’acqua, sopravvivere al buio profondo di una notte senza luci artificiali. «Sembra qualcosa di straordinario per chi non cresce in questo ambiente – rassicura –, ma qui è abbastanza normale, fa parte della natura, fa parte della vita. E io non vedo l’ora di uscire fuori nel deserto, dove non c’è la corrente, dove mi posso staccare dalla televisione, dal telefono, dalle notizie». Sarà anche normale, ma questo è l’unico aggettivo che non viene in mente quando ci si confronta con Margaret Courtney-Clarke, per la forza del suo spirito che trapela da ogni racconto e per l’eccezionalità della vita vissuta, o meglio delle tante vite che ha sperimentato, viaggiando imperterrita tra l’Africa, l’Europa e l’America. Riassumerle qui sarebbe un’impresa tanto ardua quanto inutile: Margaret ha visto troppo, vissuto troppo per riuscire a ridurre, sintetizzare e condensare il tutto in poche pagine.


«On Borrowed Time è un viaggio che è solo cominciato. Sento l’esigenza di ritornare al deserto, agli spazi e luoghi non visitati nei precedenti viaggi (…). Ho la passione di fotografare ciò che sembra che nessuno guardi, di catturare immagini che portano lo spettatore verso posti familiari, mettendo in discussione la loro percezione di questi luoghi. Di andare dove la luce mi porta, dove il silenzio mi risana, e dove posso sperimentare la libertà del mio spirito»
Margaret Courtney-Clarke, Swakopmund, Namibia, marzo 2015


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


Meglio soffermarci sul presente, sul tempo che l’autrice ha deciso di dedicare a se stessa, giunta a questo punto del proprio percorso. Il tempo in prestito, On Borrowed Time, non a caso, è il titolo della ricerca fotografica portata avanti negli ultimi anni. Si tratta del primo progetto personale dell’autrice che, a differenza del passato, ha deciso di fotografare senza commissione, mossa solamente da un’urgenza privata. Quando nel 2008 torna al paese d’origine e di formazione, «alla ricerca di tranquillità, spazi aperti e aria pulita», si stabilisce a Swakopmund, una città costiera che si estende tra l’Oceano Atlantico meridionale e il deserto. Qui però non conosce la pace sperata perché si ritrova a dover affrontare una difficile malattia e, parallelamente, le contraddizioni di un Paese corrotto e segnato da profonde ineguaglianze.


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


Sarà la fotografia, che l’ha accompagnata per tutta la vita, a venirle ancora una volta in soccorso, aiutandola ad affrontare il cancro come una sorta di cura alternativa. «Riprendere la macchina fotografica in mano è stata una sfida enorme e anche una guarigione – rivela l’autrice –. La differenza tra quello che facevo e quello che faccio adesso, a distanza di oltre dieci anni, è che ora parlo di me, vorrei esprimere e ritrovare la mia identità, la mia personalità, ricercarla nel paesaggio della Namibia, dove sono custodite le mie memorie, la mia infanzia». Nasce così un progetto che è frutto di un cambiamento, una ricerca fotografica inedita per la sua stessa creatrice, uno sguardo acuto sulla Namibia contemporanea. «Il tempo della Namibia – coincide con il mio tempo, perché ogni giorno mi sveglio e non so cosa potrà accadermi. Voglio raccontare quello che sta succedendo in questo Paese in nome dello sviluppo, affinché il mondo veda e reagisca, perché qualcuno si vergogni».


«Le fotografie di On Borrowed Time parlano dell’esistenza. Esse sono il frutto di una consapevolezza (da parte dell’autrice) sulla fragilità della propria esistenza e di una stretta simbiosi con gli antichi ritmi del deserto e della costa, i modi di vivere dei suoi abitanti, le tracce del loro passaggio e l’avanzata apparentemente inesorabile dello sviluppo corporate e minerario. […] Esse sono eloquenti circa un’esistenza dura e di deboli barlumi di speranza, in una vita graffiata da un terreno spaventosamente inospitale, a fronte di una travolgente transizione sociale. Allo stesso tempo, queste fotografie raggiungono una grazia conturbante che non è un senso falsato della realtà, ma, al contrario, una rara sintesi di cosa ci sia nella realtà stessa assieme a una onestà di visione profondamente accresciuta e priva di compromessi» David Goldblatt, Johannesburg, 2015


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


Fotografia come strumento per illuminare la verità e catalizzare l’attenzione verso i problemi sottaciuti di un territorio vastissimo e sottopopolato, «dove la siccità e la ridistribuzione delle terre minacciano mezzi di sussistenza e stabilità socio-economica e dove culture e identità contrastano con il neocolonialismo». La Namibia è una terra ricca di minerali preziosi, risorse naturali che nel corso del tempo hanno attirato gli investimenti dei giganti globali, accorsi a spartirsi le concessioni minerarie. Questo fenomeno ha provocato, a sua volta, uno sviluppo senza precedenti, forti ondate migratorie e un divario sempre più netto tra ricchi, minoranza bianca e poveri.


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


Dune di sabbia, letti di fiume prosciugati, campi, allevamenti e riserve ambientali. Margaret Courtney-Clarke ha percorso centinaia di chilometri con infaticabile energia, attraversando terre remote, scavalcando barriere, evitando checkpoint e intrufolandosi nelle zone minerarie dall’accesso vietato, pur di raccontare senza riserve le condizioni di vita in cui versano la maggior parte dei namibiani e, in special modo, coloro che vivono all’interno di un campo abusivo, conosciuto come DRC (Democratic Resettlement Community, precedentemente Displaced Refugee Camp). Situato a dieci chilometri nell’interno, accanto alla discarica urbana, è una vera e propria baraccopoli profondamente intrisa di reminiscenze di apartheid. Un luogo dove «la speranza supera di gran lunga la fornitura di beni di prima necessità – racconta la Clarke –. Pochi lampioni, minimi prepaid water point, nessuna rete fognaria, nessun cassonetto per la spazzatura e un’occasionale raccolta di rifiuti. In questo ambiente mi sono sentita sfidata dalle immagini preconcette di povertà e bassifondi, madri e bambini (colti) nelle aspre lotte della vita – immagini che ho scelto di non scattare durante i miei primi viaggi attraverso l’Africa».


© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


E le fotografie di On Borrowed Time non smentiscono la scelta, discostandosi fortemente da stereotipi e luoghi comuni: sono immagini che invitano al discernimento critico, sono il frutto di uno sguardo empatico, della fiducia che l’autrice riesce a guadagnare. Come sottolinea il fotografo David Goldblatt: «La relazione di Margaret con le persone che ha fotografato in questo lavoro è concreta e intima, quasi quella di un familiare piuttosto che quella di un osservatore compassionevole. È un frammento catturato con la pienezza del suo abbraccio. Utilizzando la sabbia del deserto ha costruito con loro una dimora di sacchi di sabbia. É un’amica fidata delle donne e dei bambini che puliscono la discarica dei rifiuti. Affronta funzionari municipali per il trattamento che riservano alle persone senza terra. Ha celebrato il suo compleanno con una famiglia di contadini che ha ucciso una capra in suo onore. Quando ha saputo di due bambini che sono morti per un morso di serpente, ha raccolto soldi per le loro bare e ha viaggiato per duecentotrenta chilometri su un’accidentata strada sterrata attraverso il deserto per essere presente al loro funerale». Sono tante le persone che aspettano, aiutano e proteggono Margaret Courtney-Clarke, sorella, amica, mamma, nonna di una grande famiglia allargata. La fotografia assume, allora, un ruolo marginale in questa relazione, dove la cosa più importante è l’incontro autentico con l’altro.

© Margaret Courtney Clarke

© Margaret Courtney Clarke


Biografiaritratto
Margaret Courtney-Clarke nasce in Namibia nel 1949. Si forma tra la Namibia e il Sudafrica, per poi approfondire lo studio dell’arte e della fotografia in Italia e negli Stati Uniti. Lavora come fotogiornalista per numerose testate internazionali. Tra il 1978 e il 1979 compie alcuni viaggi in Namibia ed è segnalata come persona non gradita in riferimento alle sue opinioni rispetto alle leggi sull’apartheid; lo stesso anno decide di rinunciare alla cittadinanza. Nel 1980 inizia a collaborare con il fotografo David Goldblatt. Tra il 1979 e il 1996 porta avanti alcuni progetti fotografici in Africa, documentando i diversi tipi di rifugi e indagando l’arte delle donne africane, a cui dedica una trilogia di grande successo (Ndebele: Arte di una Tribù Africana, Affreschi Africani, Popolo Libero). Tra il 1994 e il 1999 collabora con Maya Angelou, celebre poetessa americana e grande amica. Tra il 1999 e il 2010 crea la Ndebele Foundation, un’organizzazione culturale non-profit per le donne Ndebele e la gioventù di Mabokho, Mpumalanga. Nel 2008 torna a vivere in Namibia. Nel 2015 è nominata per l’Henri Cartier-Bresson Award con il progetto On Borrowed Time.

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