7 Aprile 2020 di Redazione Redazione
Una carriera di successo costruita grazie a un punto di vista sorprendentemente insolito che lo ha distinto nel mondo della moda, nell’ambito della ricerca artistica e nella fotografia di architettura e design. Le sue opere sono state esposte in tutto il mondo ed è stato pubblicato dalle maggiori riviste internazionali, dal New York Times a Harpers’ Bazaar, da Vogue a Elle. Autore di valore internazionale, ha sviluppato tecniche uniche che ne hanno definito lo stile iconico. Ne sono un esempio l’uso delle Polaroid di grande formato (20x25cm), divenute il suo elemento distintivo nel dare espressione al fashion, e, nel video, le sequenze montate in stop motion – un esempio mirabile rimane il lavoro per Fornasetti –.

Come ti è venuta l’idea della Polaroid? «Ho sempre utilizzato la Polaroid nel piccolo formato e lo trovavo molto affascinante. Poi un giorno, a Parigi, sentii del formato 20×25. L’ho comperata e me ne sono innamorato. Acquistai delle Toyo, Ne avevo tre. Una la tenevo in Giappone e le altre due in Italia e negli Stati Uniti. Questa preferenza ha comportato anche una scelta precisa delle luci. Non si potevano utilizzare i flash. Si lavorava in luce continua come per il cinema. Avevo le Arri».
| Diane Kruger, Allegra 1998

| Diane Kruger, Allegra 1998 © Tony Meneguzzo

Perché la Polaroid e non l’Hasselblad? «La 20×25 mi ha subito trasmesso una sensazione di stabilità. Risultava tutto meno svolazzante e meno vaporoso. Per me era l’antitesi della macchina che fa trecento scatti. Questo mi ha permesso di lavorare a dei progetti veri e propri, pensati e organizzati sulla figura femminile. Ho sempre ricercato delle protagoniste che avessero delle caratteristiche più teatrali, quasi scultoree. Il mio riferimento in quegli anni erano le figure di inizio Novecento dell’arte, per lo più viennese. Penso a Otto Dix, Egon Schiele e Oskar Kokoschka. All’epoca, il sistema era un’iperbole di salti e di dinamicità; si assisteva a una grande vivacità sui set. Alcune modelle che arrivavano da me alla vista della Polaroid avevano una crisi d’ansia. D’altronde, erano abituate alle solite richieste: “Dai muoviti, salta, girati”. Con me era esattamente il contrario. Cercavo, tra le modelle, delle tipologie espressive che in quel momento non erano dominanti; non pensavo alla bellezza perfetta, piuttosto a rendere evidente delle particolarità».
La Polaroid era il tuo linguaggio. Le redazioni e gli stilisti comprendevano questa tua scelta? «Visto il trend, non era molto facile. Mi sono sempre considerato borderline dal punto di vista professionale. Spesso con i direttori delle testate mi trovavo in contrasto per la scelta dei modelli. Piacevano molto i bei ragazzotti dinamici, che fanno sognare le donne. Io invece sceglievo delle figure emaciate e un po’ tragiche che risultavano nuove e antiche allo stesso tempo. La mia intenzione era di far risaltare la loro bellezza interna, la loro verità».

Chi sono gli stilisti che hanno maggiormente compreso la tua poetica? «Sicuramente Jil Sander. Ho costruito una tipologia che chiariva l’identità del brand e nel catalogo che realizzai, la stilista trovò proprio la comunicazione che le serviva per raccontare il marchio. Ho lavorato molto bene per delle campagne pubblicitarie anche con Gianfranco Ferrè. Per la catena di grandi magazzini francesi Printemps avevo prodotto una campagna che si è vista in tutta la metropolitana di Parigi».

Anh Duong Vogue Pelle, 1986 © Tony Meneguzzo


In quali occasioni non hai potuto esprimerti come avresti voluto? «Dipendeva spesso dalle persone. Alcune erano d’accordo con me, altri invece mettevano tutto in discussione, rendendo il lavoro molto complicato e faticoso. Probabilmente si aspettavano un altro fotografo. Nel momento in cui tutto funzionava e ognuno dava il proprio contributo allora mi sentivo come un direttore d’orchestra e riuscivo a creare una sinfonia eccezionale. Il cliente si portava lo scanner e dopo la scansione l’immagine veniva lavorata direttamente sul set. Si aggiungevano i testi e tutti rimanevano soddisfatti».
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di Giovanni Pelloso

Toni Meneguzzo

Tony Meneguzzo
Portogruaro,1949. Fotografo ricercatore per sua definizione, inizia la carriera professionale negli anni Settanta. Caratterizza
fin da subito il suo lavoro per la continua ricerca e sperimentazione del mezzo fotografico e della tecnica. Collabora con
le più importanti riviste internazionali di fotografia, moda, lifestyle e design come Interview, Marie Claire, New York Times magazine, AD Francia, AD Russia, AD Cina, AD Italia, World of Interiors, Architektur & Wohnen, Case da Abitare, Grazia Casa. Il suo lavoro è stato oggetto di numerose mostre internazionali, tra le quali ricordiamo Exploring the familiar alla Photographer’s Gallery di Londra (1975), Nude of J. alla Room Gallery di Tokyo (1991), Visioni e Suoni allo Studio Casile Gallery di Milano (1993), Go Puja alla Crooma Gallery di Monaco (2010). Ha pubblicato, inoltre, una serie di volumi fotografici di notevole successo come Seduzione (1991), Aure (1993), Frammenti (1993) con l’editore Treville Book.

 

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