Conosciuta per i ritratti pubblicati su settimanali e mensili, in questi anni Angela Lo Priore ha dato prova di una personalissima creatività con progetti capaci di riscuotere grande interesse

3 Dicembre 2018 di Vanessa Avatar

Angela Lo Priore

Conosciuta per i ritratti pubblicati su settimanali e mensili, in questi anni Angela Lo Priore ha dato prova di una personalissima creatività con progetti capaci di riscuotere grande interesse anche nel mercato dell’arte. A un mese dalla fiera di fotografia più importante al mondo, le chiediamo di raccontarci il senso della sua nuova opera Stairs Obsession che sarà in esposizione al Grand Palais a novembre e del suo ultimo libro Eat Me, un’opera densa di ironia e con un tocco di surrealtà.

Angela Lo Priore e il progetto Stairs Obsession

L’ultimo progetto Stairs Obsession, presentato a Parigi alla fiera di fotografia più importante al mondo con la galleria Photo & Contemporary diretta da Valerio Tazzetti, ha un’origine tutta particolare. «È l’elaborazione di un’esperienza personale», racconta Angela. «L’anno scorso sono caduta dalle scale e mi sono rotta entrambi i piedi. Ho impiegato sei mesi per ritornare a camminare bene e circa un anno per riprendermi completamente. Sempre l’autunno scorso il mio gallerista ha realizzato una mostra sull’architettura razionalista chiedendomi se volevo partecipare con alcune immagini. Com’è risaputo, mi sono occupata di architettura anche se, in tutta sincerità, la trovo fredda. Preferendo il rapporto umano, mi sono indirizzata al ritratto nel quale trovo la mia dimensione ideale. La proposta mi pareva comunque interessante e ho iniziato a guardarmi intorno cercando dei palazzi razionalisti. A Torino scopro un bellissimo palazzo progettato da Carlo Mollino a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Entrando, sono rimasta affascinata da una scala meravigliosa. La sensazione era che il palazzo fosse costruito attorno a questa scala e al lampadario che scende per otto piani. Mi sono innamorata del luogo e ho realizzato lo scatto di una donna come se cadesse dalle scale. Guardando la foto mi sono resa conto che avevo messo in scena il mio dolore, la mia caduta e la mia storia. Quest’immagine mi apparteneva molto intimamente. In me si era mosso qualcosa al punto che ho iniziato a cercare grandi scale elicoidali per continuare questa ricerca sulla spirale, che è anche la spirale del dolore e della fragilità femminile. Il progetto è nato così da una strana coincidenza che mi ha portato all’elaborazione attraverso la fotografia del mio recente dolore».

Quindi, sei ancora alla ricerca di nuove scale?
«Certo. Sempre. Di scale a spirale, tipiche del periodo razionalista, non se ne incontrano spesso. Oltre a quella di Mollino, ne ho trovata una a Milano realizzata da Castiglioni per palazzo Ratti, lì ho fotografato una donna nuda in fondo alle scale, e a Genova di Morozzo della Rocca, ambiente in cui ho voluto catturare l’immagine di una donna che inciampa e cade. È difficile, ma ne sto trovando. Ultimamente, mi ha chiamato un amico che, vedendo le mie immagini su Instagram, mi ha proposto di fotografare quelle da lui progettate. Ha ristrutturato un palazzo e ha costruito tre scale a spirale. Una rossa, una verde e una blu. Ho realizzato lo scatto e non riesco neanche a portarlo in bianco e nero perché il colore mi piace troppo».

Nei suoi progetti Angela Lo Priore non utilizza mai modelle professioniste, ma collabora sempre con persone a lei vicine. Possono essere conoscenti, amiche o parenti. Anche la figlia, spesso, diviene la protagonista delle sue mise en scène. Tutte donne.
«Nella foto di Napoli si è proposto un mio amico che oggi definiremmo “gender”, da amico è diventata una mia amica. È stata la mia truccatrice per molti anni. Nella foto c’è lei che cade dalle scale. Ho voluto sottolineare questo cambiamento sessuale con una  parrucca che, mentre cade, riesce a trattenere in mano». La curiosità è ora di comprendere come gestisci i permessi per accedere a strutture private. «Ogni volta bisogna trovare il modo giusto di interfacciarsi», prosegue Angela. «Per la foto alla Camera di Commercio ho fatto richiesta formale via mail e loro mi hanno dato un’ora dalla chiusura degli uffici. Per quanto riguarda le case private, a volte è complicato. Se conosco qualcuno nello stabile, allora posso appoggiarmi nell’appartamento e scattare quando non s’incontra nessuno. Per il palazzo di Genova, ospitando molti uffici, era praticamente impossibile chiedere a tutti il permesso. Alla fine, siamo salite all’ultimo piano e la modella è scesa a quello sotto quando la scala era libera. Poverina, era mezza nuda e faceva molto freddo. Si alzava e si spostava a seconda della situazione e quando avevo campo libero scattavo. Fortuna che, come il mio solito, sono stata velocissima».

Angela Lo Priore ama il bianco e nero anche se, per necessità editoriali, ha dovuto accettare anche di scattare in molte occasioni a colori:
«Una buona parte del mio lavoro», spiega, «nasce a colori per esigenze che esulano dalla mia scelta linguistica. Quando, però, ho avuto la libertà di esprimermi, come per i miei progetti artistici, la scelta è stata subito chiara. Il bianco e nero consente di creare un’immagine atemporale, di estraniare quel mondo che trattieni nel frame fotografico dal contesto storico. Il colore, inoltre, può distrarre. Dà più informazioni e distoglie lo sguardo dall’elemento principale. Se vedi una foto di Avedon, magari realizzata nel 1950, non riesci a collocarla temporalmente. Potrebbe essere stata fatta l’altro ieri. Ha la capacità di uscire dalla linea del tempo».

Dalle varie riviste d’interni e dal suo impegno nella fotografia d’architettura, negli anni Novanta Angela Lo Priore approda al ritratto grazie a una serie d’incontri e di circostanze:
«A un certo punto mi contattò il proprietario di cinque alberghi a Ischia», racconta l’autrice. «Aveva visto delle foto d’interni e mi invitava a visitare i suoi alberghi. Iniziai a lavorare al Regina Isabella, tutt’ora un famosissimo albergo. Questo prestigioso luogo d’ospitalità era frequentato da importanti attrici dello spettacolo e del cinema, così crebbe il desiderio di ritrarle. Spesso incontravo donne bellissime e famose e, avendo modo di frequentarle, tutto diveniva più facile. Gli scatti comparivano pubblicati su settimanali e mensili nazionali. C’erano le belle attrici italiane e straniere del periodo. Basti ricordare Gwenet Paltrow, Sabrina Ferilli e Francesca Neri. Da quel momento mi sono innamorata del ritratto e non l’ho più lasciato».

La passione di Angela per il ritratto è animata, in particolare, dal contatto con la persona:
«Realizzare un ritratto significa attivare un processo molto particolare con il soggetto. Senza empatia, difficilmente riesci a realizzare qualcosa di valido. Non è da tutti. Devi avere la capacità di sentire la persona che ti è di fronte».

Le chiediamo quale altra dote si deve possedere per poter svolgere al meglio questo lavoro:
«Bisogna avere molta pazienza, cercare di stabilire un dialogo e capire. A volte anche grandi attori, davanti all’obiettivo, diventano timidissimi. Recitare è una cosa, posare davanti all’obiettivo di un fotografo è mettersi a nudo, scoprire una parte di sé molto intima. Per esempio, con Al Pacino è stato facile perché è stato capace di donarsi subito al meglio. Ci vuole del tempo. Le persone si devono sentire a loro agio, devono potersi rilassare, lasciarsi condurre. Devono abbandonare le loro paure. È una relazione che si costruisce attraverso la fiducia e la stima. Abatantuono è un omone, ha un fisico importante, ma è anche una persona che sa giocare con se stesso. Alla fine, con lui, realizzai un ritratto molto efficace. Un altro attore con cui sono riuscita a dar vita a un lavoro straordinario è stato Silvio Orlando. Lo incontrai a Venezia nel 2010. A quell’epoca facevo i portfoli per Sette, il settimanale del Corriere della Sera»

Il tuo ultimo libro Eat Me raccoglie un progetto personale e racconta, non senza ironia, il mondo femminile.
«Come donna e come persona sono vicina alle questioni femminili », precisa Angela. «Nello specifico, mi aveva chiamato uno chef e voleva che interpretassi i suoi piatti. Poi il progetto non è andato in porto, ma mi tornava sempre in mente perché pensavo che potesse essere una chiave interpretativa perfetta per parlare della donna e dei suoi problemi, soprattutto in questa epoca che costringe tutte a una fatica tremenda per essere sempre belle e perfette. Il progetto l’ho realizzato a Roma. Oltre al lavoro in studio, la maggior parte degli scatti sono stati creati negli affascinanti ambienti di villa Nocetta, una dimora romana di proprietà di un amico cui si deve una magnifica opera di ristrutturazione».

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