27 Giugno 2020 di Redazione Redazione
Intercettiamo il fotografo naturalista Moose Peterson su Skype mentre si prepara a una sessione fotografica nel Parco Nazionale dello Yosemite in California, nonostante oggi il cielo sia nuvoloso. Di fronte a lui il Tunnel View, una delle viste panoramiche più spettacolari del parco, resa celebre – tra gli altri – da uno scatto di Ansel Adams. Approfittiamo della chiacchierata per parlare di luce, esposizione e profondità di campo, tutti elementi che – come ci spiega Moose – influenzano il nostro punto di vista e, quindi, il nostro modo di fotografare.
La fauna e la natura selvagge sono sempre state tra i tuoi interessi: come si sono combinate alla fotografia? Vivo a meno di 40 chilometri di distanza da qui. Siamo californiani da tre generazioni e le montagne della Sierra Nevada sono la mia “casa” da quando avevo due settimane di vita. Per quanto riguarda la fotografia, tutti nella mia famiglia – da mio nonno in giù – sono appassionati. Io sono stato il primo a cercare di farne una professione. Non l’ho pianificato ma la vita stessa mi ha portato a tutto questo.
Mesa Arch nello Utah.

Mesa Arch nello Utah.

Lo Yosemite, quindi, è il tuo luogo preferito? Quello che amo di più è “La Sierra”, dove vivo. Non c’è un solo angolo della Sierra Nevada che io non ami. La mia famiglia vive lì dal 1900, quindi posso dire che è parte del nostro DNA. Quando ero un bambino, io e mio padre percorrevamo almeno 800 chilometri a piedi, in lungo e in largo, ogni anno.
La tua famiglia ti ha incoraggiato quando hai deciso di diventare un fotografo professionista? Bella domanda! Mia sorella maggiore è un’artista di talento, ha fatto dell’arte il suo lavoro e, di conseguenza, ha avuto una certa influenza. Mio padre esprime lo stesso talento nella lavorazione del legno: posso dire che sono a contatto con questo tipo di artigianato da più tempo rispetto alla fotografia. Ma anche la luce presente in casa mia ha avuto un ruolo fondamentale: non si trattava mai di una semplice lampadina appesa al muro. La luce è sempre stata significativa, ha sempre regalato una certa atmosfera a tutto ciò che facevamo in famiglia. Persino mia mamma, che è una psicologa infantile, ha influenzato il mio modo di vedere le cose, soprattutto per quanto riguarda i colori e il significato racchiuso in essi. Non si tratta solo dell’apertura del diaframma o del tempo di posa… Le influenze che sono arrivate da diverse parti si sono mescolate in me e nella mia fotografia.
Quale luce preferisci? Quella che racconta una storia. Se sei un “artigiano”, puoi usare qualsiasi tipo di luce per raccontare qualcosa, che sia una luce contrastata, morbida o che filtra tra le nuvole. La cosa importante è che tu sappia quale luce utilizzare per illuminare gli occhi del tuo soggetto o per sottolineare quello che vuoi dire attraverso il tuo scatto. Poi, naturalmente, la devi combinare con la giusta esposizione, perché l’esposizione è ciò che ti permette di esprimere le emozioni che stai provando nel momento in cui premi il pulsante di scatto.
Recentemente ti sei dedicato anche alla fotografia di aeroplani. Come mai hai scelto di affrontare questo genere così particolare? Diciamo che la fotografia di aeroplani mi permette di coniugare le mie due grandi passioni: la natura selvaggia e i paesaggi. A sole tre ore di distanza da casa mia si tengono le Reno Air Races: si tratta di una celebre gara. Da anni io e mia moglie ci dicevamo che saremmo dovuti andare a vedere com’era. Era lo stesso periodo in cui era uscita la Nikon D3. Le corse prevedono una pregara per i piloti della scuola di volo e il ragazzo che la gestiva mi disse che avrebbe potuto farmi entrare gratis. Come ogni fotografo, ero povero e non volevo acquistare il biglietto di ingresso. Il ragazzo mi disse che mi avrebbe fatto entrare se gli avessi insegnato a usare la D3. E così è stato!
Il C-45 Expeditor si staglia contro la luce del tramonto.

Il C-45 Expeditor si staglia contro
la luce del tramonto.

Hai già pubblicato ventinove libri, hai lavorato anche ad altri progetti? A un documentario: volevo utilizzare il video come nuovo strumento per raccontare qualcosa e raggiungere un pubblico maggiore. Il documentario riguarda un C-47 Dakota, un velivolo della Seconda guerra mondiale che è stato ristrutturato e che è tornato a volare nei cieli della Gran Bretagna e della Francia nel giugno del 2019 in occasione del 75esimo anniversario dello sbarco in Normandia.
Primo piano di un Grizzly.

Primo piano di un Grizzly.


Ci sono stati fotografi da cui hai tratto ispirazione a inizio carriera? Tupper Ansel Black. Era un fotografo californiano che, come me, si era specializzato nella natura selvaggia della California. Mi ha influenzato molto per varie ragioni, la prima delle quali è che ogni sua fotografia nasceva da un suo progetto personale, dalla passione. Non ha mai voluto lavorare su commissione. Cercava solo ciò che gli interessava davvero, tutto ciò che gli permetteva di raccontare le storie che aveva in mente, e usciva a fotografarlo. Solo in un secondo momento pensava a vendere le sue immagini. Non è mai stato fermo ad aspettare una telefonata, un lavoro commissionato, era molto propositivo: questo suo modo di fare è stato senz’altro d’ispirazione per me.

Quali consigli daresti a chi volesse diventare fotografo professionista? Prendete un respiro profondo e godetevi la corsa. È un percorso lungo e bisogna tenere in conto i fallimenti. Io stesso ne ho avuto qualcuno. Ma finché uno impara dai propri errori… allora non sono davvero degli errori.

Moose Peterson

Moose Peterson
Da molti anni si occupa di fotografare la natura e gli animali selvatici, in particolare quelli minacciati. È  autore di ventinove libri, tra cui Takeoff e il suo best-seller, Captured. Moose è stato  insignito del John Muir Conservation Award ed è ricercatore associato del Endangered Species Recovery Program.

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