Le esigenze nel mondo delle news sono tali che il pluri-premiato fotografo di Getty Images non si ferma mai a lungo in un luogo… In una rara pausa, ci spiega come fa a trovarsi sempre nel posto giusto al momento giusto!
È una giornata nuvolosa quella in cui incontriamo Jeff Mitchell in un bar di Partick, a pochi chilometri dal centro di Glasgow. Ancora pochi decenni fa, queste strade accoglievano gli operai del porto sul fiume, oggi è più facile incrociare universitari o giovani professionisti. Jeff lo sa meglio di altri, perché è figlio di questa zona: nato e cresciuto a Dumbarton, è stato testimone dei molti cambiamenti sociali vissuti dalla Scozia nel corso della deindustrializzazione. La nostra conversazione ripercorre la sua vita in fotografia, dai tempi della pellicola e dei quotidiani locali ai premi e Getty Images.
Da quanto tempo sei con Getty? Ho iniziato nel 2006, quindi sono quasi quattordici anni. Prima ho lavorato per la Reuters per dieci anni, dal 1996 al 2006, e prima ancora ero al The Herald di Glasgow e al The Evening News di Edimburgo. Sono stati due posti meravigliosi per imparare: erano quotidiani tradizionali scozzesi, molto diversi da come sono oggi. Altri tempi, insomma.
Per Getty devi sempre essere pronto a spostarti ovunque la “notizia” lo richieda.Sì, magari sto coprendo la Scozia, ma devo essere pronto anche ad andare un po’ più in là. Possono dirti: “Ci servi a Manchester per quel congresso di partito” o “Abbiamo bisogno che tu vada a Biarritz a coprire il G7”. Cose del genere capitano spesso. Sono stato a Londra per il passaggio di consegne da Theresa May a Boris Johnson e ci sono tornato subito dopo per le commemorazioni del D-Day. Getty non ha una squadra enorme: a Londra ci sono due reporter e un corrispondente. Siamo pochi, c’è un rapporto stretto tra di noi, siamo diventati amici. Non è un lavoro, è una famiglia.
Ci sono state storie che ti sono rimaste in mente più di altre? Ci sono lavori che restano nella memoria, certo, spesso sono le storie più grandi: l’epidemia di afta epizootica, la crisi dei migranti, il massacro di piazza Maidan a Kiev. Non dimentichi mai del tutto storie così strazianti.
Quando ti trovi in una situazione su cui non puoi avere controllo, come a Kiev, riesci a prevedere cosa sta per succedere? Oh, senti il cambio di atmosfera, lo senti. Immagino sia un po’ come essere in un pub e annusare l’inizio di una rissa – avverti un leggero cambiamento nell’aria.
È andata così a Kiev? Sì: quando sono arrivato l’atmosfera era già molto tesa, si sentiva nelle voci delle persone. Non parlo ucraino, ma si percepiva qualcosa nell’aria.
È più difficile quando non capisci cosa viene detto? A volte non capire mi piace, perché non mi distrae. Sembra strano, ma quando segui eventi come le manifestazioni dei gilet gialli a Parigi riesci a vedere le emozioni della gente e prevedere cosa succederà. Non cercare di seguire le conversazioni ti aiuta a non distrarti.
Anche tuo padre era un fotoreporter? Ho cominciato con lui, intorno al 1988. Lavorava per il giornale locale di Dumbarton e faceva qualcosa anche per i quotidiani nazionali scozzesi.
Quindi sei cresciuto con la fotografia? Ce l’avevo in casa! Quando ero piccolo, credo meno di sette anni, mi ricordo che scendevo nel seminterrato dove mio padre aveva la camera oscura. Ero affascinato, mi mettevo lì su uno sgabello e lo guardavo. Agitavo il vassoio del liquido di sviluppo e vedevo emergere le stampe – era magia pura. Non sapevo cosa volevo fare da grande, ma sapevo che amavo passare tempo nella camera oscura.
Qual è stata la prima grossa notizia che hai coperto? Dunblane, la strage di sedici bimbi di prima elementare con la maestra, nel 1996. Non si parlava d’altro, fu orribile.
Qual è il miglior consiglio che daresti a un diciottenne di oggi che volesse diventare fotoreporter? Solo di tenere duro, non arrendersi, continuare a cercare di arrivare dove crede di voler essere. Io direi che le opportunità sono meno, ma mi ricordo che un fotografo una volta mi ha detto: “Tutti dicono che non è più come ai loro tempi, ma il tuo tempo è adesso”. Devi impegnarti e devi far funzionare le cose perché ci saranno sempre fotogiornalisti, anche negli anni a venire: le immagini devono essere scattate. Pancho Bernasconi, il nostro boss a New York, dice che non c’è mai stato così tanto bisogno di fotografia. Oggi in effetti per la fotografia ci sono più sbocchi che mai e le persone vorranno sempre vedere immagini. Quindi, se un ragazzino mi chiedesse un consiglio, probabilmente non gli suggerirei di bussare alle porte di un quotidiano ma di cercare altri posti dove portare le sue immagini. Io sono felice di essere con Getty. È casa mia, è la mia famiglia. Non sono colleghi, sono amici.
Jeff Mitchell
Ha iniziato la sua illustre carriera da adolescente, a fine anni Ottanta, all’Helensburgh Advertiser. Da allora, per Getty Images, ha coperto innumerevoli temi internazionali, come la crisi dei migranti dal Medio Oriente, la rivolta dei gilet gialli a Parigi e la rivoluzione ucraina del 2014. I suoi scatti hanno ricevuto numerosi premi di settore, tra cui UK News Photographer of the Year e Getty Images European Press Photographer of the Year. Quando non si occupa di cronaca, Jeff fotografa paesaggi e tradizioni scozzesi: «è un ottimo modo per tirare il fiato», dice.