Ricordiamo Giovanni Chiaramonte, scomparso ieri, con l’intervista a IL FOTOGRAFO, nel numero dedicato al Viaggio in Italia.

19 Ottobre 2023 di Redazione Redazione

È scomparso ieri, all’età di 75 anni, Giovanni Chiaramonte, fotografo e artista, ma anche critico e docente, che lascia un’eredità importante nel panorama culturale italiano e non solo. Nato a Varese nel 1948, alla fine degli anni Sessanta, dopo gli studi in filosofia, si avvicina alla fotografia. L’immagine dell’autore si forma nella scuola americana di Alfred Stieglitz, Paul Strand e Minor White, e successivamente, si innesta nel solco della tradizione teologica ed estetica della Chiesa d’Oriente, incontrata in Pavel Nikolaevič Evdokimov, Olivier Clément e Andrej Tarkovskij.

Nel 1974 espone alla Galleria Il Diaframma di Lanfranco Colombo e nel 1977 fonda con Luigi Ghirri e altri la casa editrice Punto e Virgola. Proprio con Luigi Ghirri, Chiaramonte avrebbe condiviso numerose imprese, come Viaggio in Italia ed Esplorazioni sulla via Emilia, da cui il novero tra i grandi maestri italiani del paesaggio.

Ha esposto in mostre personali e collettive in tutto il mondo e ha pubblicato un centinaio di servizi per le più importanti riviste di architettura. Ha fondato e diretto collane di fotografia per Jaca Book, Federico Motta Editore, Società Editrice Internazionale e Edizioni della Meridiana. Artista poliedrico, è stato docente e curatore. L’ultima mostra da lui curata (insieme a Michele Nastasi) è stata Fotografia alla carriera. Omaggio della fotografia italiana ai maestri del Compasso d’Oro, che ha inaugurato ieri all’ADI Design Museum di Milano.

Lo ricordiamo con l’intervista concessa a Giovanni Pelloso e apparsa sull numero 335 de IL FOTOGRAFO, dedicato proprio al Viaggio in Italia.

Giovanni Chiaramonte: di paesaggio in paesaggio

di Giovanni Pelloso

L’esperienza della visione abbraccia la contemplazione. L’ascolto. L’attesa e la chiamata. La realtà richiede un cammino di avvicinamento. Nessun occhio può imporsi, ma solo vivere quell’istante che è apertura al mistero dell’incontro.

Giovanni Chiaramonte non ha mai tradito il suo “stare dinnanzi” al mondo. Una limpidezza, la sua, acquisita attraverso un percorso di ricerca e una disciplina che è, anzitutto, costruzione e consapevolezza. Mancanza e Incontro.

Abitare il tempo significa essere presenti al presente: lasciare che la realtà si presenti e che sia, a te, presente. Il suo “mettere a fuoco” allora risulta scavo e azione, cuore e ragione. Attraversare il paesaggio italiano, e non solo, significa abitare un istante di luce.

L’intervista

Di quali sguardi si compone il tuo primo viaggio in Italia?

«Sento di aver avuto una condizione privilegiata. Vivendo a Milano, da genitori originari di Gela, ogni estate facevo su e giù con un treno fantastico che si chiamava Freccia del Sud. Per cui, dalla primissima infanzia fino alla giovinezza, ho guardato dal finestrino il susseguirsi del territorio italiano, dalla Padania agli Appennini, sino all’estremità orientale della Sicilia».

Il viaggio Nord-Sud è stato la caratteristica sorgiva della mia vita insieme ad altri due fatti. Il primo, che a Gela ci fossero colonne e mura dell’antica città greca; il secondo, che con la famiglia risiedemmo per dei periodi a Padova, in Piazza dei Signori, vicino a uno dei più straordinari palazzi medievali d’Italia».

«Le inconciliabili differenze tra Milano, dove era stato costruito il più alto grattacielo della penisola, Padova e le mura greche di Sicilia mi hanno donato la fantastica coesistenza di epoche diverse nella mia memoria. In Italia, ogni città e ogni paese possiede una propria storia antica e una propria identità».

«A metà degli anni Settanta, pur sentendo profonda la mia esigenza creativa, smisi di fotografare per quattro anni per studiare e tentare di capire la ragione del mondo in cui allora vivevo. Un mondo in cui l’arte si trovava nella crisi di ogni figurazione, nell’arte minimalista e new dada, di cui ero testimone seguendo la collezione che il conte Giuseppe Panza di Biumo stava creando nella sua villa a Varese».

«Avendo trovato finalmente la ragione del realismo nell’immagine fotografica, nel 1980 decido di fotografare con una fotocamera di medio formato su cavalletto. Mi ispirai al libro Viaggio in Italia di Goethe e all’esergo posto all’inizio, avendo compreso anche la ragione della pittura di paesaggio, sorta poco dopo l’invenzione di Galileo, la quale ha nelle figure della tomba e dell’albero il proprio motivo generativo».

«Fotografando col cavalletto, mi sono sempre sentito una sorta di albero capace di muoversi nella contraddittoria complessità del mio Paese. La prima fotografia del personale viaggio in Italia è stata scattata alla mia stanza a Milano. E poi agli esterni monumentali di Roma, Napoli, fino allo stretto di Messina per arrivare a Gela e ritrovare attraverso un’immagine i luoghi della mia vita come luoghi del mio presente. Luoghi che, nella forza del loro essere, spingevano verso altri viaggi».

Giovanni Chiaramonte
Segesta, 1998 © Giovanni Chiaramonte

Questa memoria consente di mettere a fuoco la propria identità, scoprendosi, al tempo stesso, permanenza e rivelazione.

«Certo, perché la categoria che percepisco come fondamento della mia opera è la categoria dell’Evento. Porre un cavalletto con una fotocamera ferma davanti a un monumento, a uno spazio, a un territorio, fa diventare Luogo quello che è di fronte a te, quando dentro di te avvampa un riconoscimento, nello sguardo arriva al cuore, mentre tu rispondi dal cuore con la gratitudine propria di ogni Immagine. La categoria dell’evento è fondamentale per me».

«Conoscevo già i Becher e il loro lavoro, ovvero la cosiddetta fotografia documentaria, e coscientemente ho sempre rifiutato la definizione di fotografo documentario».

«Io sono e rimango un fotografo dei luoghi. I luoghi non chiedono mai un documento, i luoghi chiedono a chi li attraversa un riconoscimento d’amore. Un’immagine unica e irripetibile che nasca in te, persona unica e irripetibile ferma in quel luogo».

Vedo molti giovani che si confrontano con il paesaggio. Il sentire esiste ancora?

«Assolutamente sì, perché nel mio quarantennale insegnamento di Teoria e Storia della Fotografia si è generata l’opera di molti giovani autori che stanno continuando in modo originale la mia stessa via. Infatti, fotografare i luoghi secondo la categoria dell’evento può dare a ogni giovane fotografo, nel disastro del contemporaneo, l’esperienza poetica della profondità del tempo, ridando vita a ogni monumento, seppure in rovina, lasciatoci dalla storia, nella vastità della campagna o dei boschi custoditi dal lavoro dei contadini».

«Suscitare attraverso l’immagine di una fotografia un nuovo presente alle forme del passato: questa è la poesia visiva che salva il mondo».

Lascia un commento

qui