Nell’intervista per IL FOTOGRAFO, Giovanni Chiaramonte definisce il fotografare i luoghi un riconoscimento d’amore.

30 Aprile 2022 di Giovanni Pelloso Avatar

Nel numero 335 de IL FOTOGRAFO, dedicato al Viaggio in Italia, il fotografo Giovanni Chiaramonte si racconta a Giovanni Pelloso.

Abitare un istante di luce

L’esperienza della visione abbraccia la contemplazione. L’ascolto. L’attesa e la chiamata. La realtà richiede un cammino di avvicinamento. Nessun occhio può imporsi, ma solo vivere quell’istante che è apertura al mistero dell’incontro.

Giovanni Chiaramonte non ha mai tradito il suo “stare dinnanzi” al mondo. Una limpidezza, la sua, acquisita attraverso un percorso di ricerca e una disciplina che è, anzitutto, costruzione e consapevolezza. Mancanza e Incontro.

Abitare il tempo significa essere presenti al presente: lasciare che la realtà si presenti e che sia, a te, presente. Il suo “mettere a fuoco” allora risulta scavo e azione, cuore e ragione. Attraversare il paesaggio italiano, e non solo, significa abitare un istante di luce.

L’intervista a Giovanni Chiaramonte

Di quali sguardi si compone il tuo primo viaggio in Italia?

«Sento di aver avuto una condizione privilegiata. Vivendo a Milano, da genitori originari di Gela, ogni estate facevo su e giù con un treno fantastico che si chiamava Freccia del Sud. Per cui, dalla primissima infanzia fino alla giovinezza, ho guardato dal finestrino il susseguirsi del territorio italiano, dalla Padania agli Appennini, sino all’estremità orientale della Sicilia».

Il viaggio Nord-Sud è stato la caratteristica sorgiva della mia vita insieme ad altri due fatti. Il primo, che a Gela ci fossero colonne e mura dell’antica città greca; il secondo, che con la famiglia risiedemmo per dei periodi a Padova, in Piazza dei Signori, vicino a uno dei più straordinari palazzi medievali d’Italia».

«Le inconciliabili differenze tra Milano, dove era stato costruito il più alto grattacielo della penisola, Padova e le mura greche di Sicilia mi hanno donato la fantastica coesistenza di epoche diverse nella mia memoria. In Italia, ogni città e ogni paese possiede una propria storia antica e una propria identità».

«A metà degli anni Settanta, pur sentendo profonda la mia esigenza creativa, smisi di fotografare per quattro anni per studiare e tentare di capire la ragione del mondo in cui allora vivevo. Un mondo in cui l’arte si trovava nella crisi di ogni figurazione, nell’arte minimalista e new dada, di cui ero testimone seguendo la collezione che il conte Giuseppe Panza di Biumo stava creando nella sua villa a Varese».

«Avendo trovato finalmente la ragione del realismo nell’immagine fotografica, nel 1980 decido di fotografare con una fotocamera di medio formato su cavalletto. Mi ispirai al libro Viaggio in Italia di Goethe e all’esergo posto all’inizio, avendo compreso anche la ragione della pittura di paesaggio, sorta poco dopo l’invenzione di Galileo, la quale ha nelle figure della tomba e dell’albero il proprio motivo generativo».

«Fotografando col cavalletto, mi sono sempre sentito una sorta di albero capace di muoversi nella contraddittoria complessità del mio Paese. La prima fotografia del personale viaggio in Italia è stata scattata alla mia stanza a Milano. E poi agli esterni monumentali di Roma, Napoli, fino allo stretto di Messina per arrivare a Gela e ritrovare attraverso un’immagine i luoghi della mia vita come luoghi del mio presente. Luoghi che, nella forza del loro essere, spingevano verso altri viaggi».

Giovanni Chiaramonte
Segesta, 1998 © Giovanni Chiaramonte

Questa memoria consente di mettere a fuoco la propria identità, scoprendosi, al tempo stesso, permanenza e rivelazione.

«Certo, perché la categoria che percepisco come fondamento della mia opera è la categoria dell’Evento. Porre un cavalletto con una fotocamera ferma davanti a un monumento, a uno spazio, a un territorio, fa diventare Luogo quello che è di fronte a te, quando dentro di te avvampa un riconoscimento, nello sguardo arriva al cuore, mentre tu rispondi dal cuore con la gratitudine propria di ogni Immagine. La categoria dell’evento è fondamentale per me».

«Conoscevo già i Becher e il loro lavoro, ovvero la cosiddetta fotografia documentaria, e coscientemente ho sempre rifiutato la definizione di fotografo documentario».

«Io sono e rimango un fotografo dei luoghi. I luoghi non chiedono mai un documento, i luoghi chiedono a chi li attraversa un riconoscimento d’amore. Un’immagine unica e irripetibile che nasca in te, persona unica e irripetibile ferma in quel luogo».

Vedo molti giovani che si confrontano con il paesaggio. Il sentire esiste ancora?

«Assolutamente sì, perché nel mio quarantennale insegnamento di Teoria e Storia della Fotografia si è generata l’opera di molti giovani autori che stanno continuando in modo originale la mia stessa via. Infatti, fotografare i luoghi secondo la categoria dell’evento può dare a ogni giovane fotografo, nel disastro del contemporaneo, l’esperienza poetica della profondità del tempo, ridando vita a ogni monumento, seppure in rovina, lasciatoci dalla storia, nella vastità della campagna o dei boschi custoditi dal lavoro dei contadini».

«Suscitare attraverso l’immagine di una fotografia un nuovo presente alle forme del passato: questa è la poesia visiva che salva il mondo».

Leggi l’intervista completa a Giovanni Chiaramonte su IL FOTOGRAFO n. 335

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