Quando e come hai deciso di iniziare Obesa? «Obesa è stato il mio progetto finale per il diploma alla Fondazione Studio Marangoni. È stata la conclusione di un percorso di studi che mi ha insegnato a non temere di utilizzare la fotografia come racconto personale. Non riuscivo a riconoscere il mio corpo nella fotografia contemporanea. Vedevo corpi femminili che non mi assomigliavano elevati a simbolo di femminilità e quelli obesi fotografati come elemento grottesco, così ho deciso di raccontare l’obesità attraverso la mia voce, attraverso la fotografia di messa in scena. Optare per questa tipologia di racconto fotografico è stata quasi una scelta obbligata perché oltre a essere la mia preferita, mi permette il pieno controllo dell’immagine e la possibilità di lasciare al suo interno piccoli messaggi. Il progetto fotografico è cresciuto e si è sviluppato in parallelo ai miei studi sul femminismo contemporaneo e il body positive».
A che punto la tua esigenza personale si è tramutata in arte? «Sono grata di aver conosciuto e studiato questo linguaggio perché è diventato la mia voce e il mio diario personale. Sono schiva di natura, ma ho un mondo variopinto nella testa, cerco di trasformarlo in fotografia studiando i dettagli delle mie messe in scena. Lo scatto è sempre un momento catartico. All’inizio era solo uno sfogo, poi ho imparato a riconoscere il valore terapeutico del tradurre le sensazioni in immagini».
Secondo te le due cose si possono scindere? «Cartier Bresson diceva che le fotografie si fanno con gli occhi, con il cuore e con la testa. Non credo ci sia niente di più vero. Gli scatti rivelano tanto del fotografo. Sono gelosa e protettiva nei confronti delle mie foto perché le considero parti di me. Trovo che l’autenticità di una storia veramente vissuta e sentita accresca il valore del racconto fotografico. Io vivo l’arte e la motivazione personale come inscindibili».
Come dialogano con il tuo corpo gli oggetti che hai usato? «Gli oggetti sono stati scelti o creati da me. Mi piace pensarli come autoritratti. Spesso il corpo obeso è dileggiato come se non fosse umano, come un oggetto. Da quando sono io ad avere il potere di raccontarmi posso scegliere quelli che mi sono più affini e in cui mi riconosco».
C’è un forte approccio estetico nel tuo modo di fotografare. Al di là della tematica, pensi che perseguirai su questa strada? «Sì, nonostante apprezzi molto la fotografia reportagistica riconosco che il mio linguaggio è la fotografia di messa in scena. Sento di potermi esprimere pienamente già dalla costruzione dell’immagine. Il processo di pre-visualizzazione è una componente molto forte nel mio lavoro e questo include lo studio del colore e della composizione. Nelle mie immagini metto tutto quello che ho studiato e cosa mi porto dentro».
Lavori futuri? «Sto lavorando al seguito di Obesa, raccontando del mio intervento di chirurgia bariatrica, una riduzione di stomaco e intestino per facilitare il dimagrimento. Voglio raccontare il mio corpo in mutamento, la mia femminilità e la mia identità. Per fortuna esiste la fotografia a contenere i miei pensieri».
Proseguirai il progetto Obesa sempre seguendo uno stile staged? «Continuerò Obesa con il linguaggio della messa in scena perché è quello che mi rispecchia di più e che mi permette un totale controllo nella narrazione. Posso così trattare l’argomento in maniera più ironica e delicata, nonché rappresentare tutte le sensazioni che provo verso il mio corpo in cambiamento».
testo di Francesca Orsi
Stefania Mattioli
Nata a Prato nel 1986, vive a Firenze, ma vorrebbe essere sempre in viaggio. La fotografia è una delle sue più grandi passioni – seguono i libri, l’arte e la natura– e una ragione di vita. Immergersi nell’obiettivo e scattare è ciò che le permette di rivelare la visione del mondo. Con la fotografia cerca di unire le emozioni alla composizione dell’immagine. È uno studio e una sfida a migliorarsi sempre.