12 Luglio 2019 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

Lo studio di Edoardo Romagnoli a Milano trabocca di libri, faldoni, stampe, fotografie appese alle pareti. Oltrepassarne la soglia significa non solo entrare in un luogo di lavoro ma immergersi nelle passioni che animano Edoardo e la sua fotografia: su tutte, la luna, con cui il nostro autore vive quella che il critico e docente di fotografia Roberto Mutti ha definito “una lunga storia di seduzione”. Una storia iniziata quando Edoardo era ancora un ragazzo, all’epoca di quella conquista dello Spazio che – pur in una gara serratissima – seppe in qualche modo unire il mondo allora diviso dalla cortina di ferro intorno a un obiettivo comune.

Intervista a Edoardo Romagnoli

Edoardo, che ricordo hai di quel 20 luglio 1969, quando Neil Armstrong e Buzz Aldrin scesero sulla superficie lunare? E questo ricordo ha influito sul percorso fotografico che hai sviluppato in seguito?
Quella sera – avevo sedici anni – ero con Marco, il mio amico compagno delle elementari, a Entrèves, in Valle d’Aosta. Abbiamo passato tutta la notte davanti alla TV. Gli astronauti sono rimasti chiusi a lungo dentro il LEM, prima di scendere; durante questa attesa ci siamo fatti una spaghettata al pomodoro. Mi ricordo perfettamente il primo passo dell’uomo sulla luna. È stata una situazione molto intima, tranquilla, emozionante, eravamo incollati alla televisione. Certamente questo ricordo ha influito perché quella sera mi sono detto che avrei voluto andare sulla luna. Forse non l’ho pensato per la prima volta proprio quella sera. Mi ricordo che una volta avevo un appuntamento e in una portineria ho visto la partenza di uno Shuttle. Mi sono fermato lì un’ora! Ho sempre trovato emozionante questa corsa allo Spazio. Non c’è niente di uguale ora, non c’è un intero mondo proiettato a una conquista comune. Eravamo tutti uniti e tutti in corsa.
Sei stato tu a sedurre la luna o è stata la luna a sedurre te?
Come sempre avviene, bisogna annusarsi e l’odore deve piacere. Mi piace dire che la luna è ammirata da tutti ma certe volte esce solo con me.
Come scegli il momento in cui scattare?
Mi lascio attrarre dalla forma della luna. Solo l’anno scorso, per la prima volta, ho lavorato con una luna che non fosse sottile, ma a due terzi. È una luna un pochino sgraziata ma funziona benissimo; l’avevo sempre evitata, invece ha questo profilo per cui vengono fuori molto bene i crateri, le asperità, le montagne. Più spesso lavoro con una luna sottilissima, ecco questa è la luna che amo di più.
È la più enigmatica?
Direi che è la più esplicita. Tu dici enigmatica perché è nascosta, ma qui si vede la parte più bella, è come se lei riuscisse a mettere in evidenza di sé la parte migliore, questo filo sottilissimo. La luna piena è bella e perfetta, ma come tutte le cose perfette è forse meno affascinante di quelle imperfette.
Chi sono i tuoi punti di riferimento, nella fotografia e non solo?
Sicuramente Lucio Fontana ma Richard Long è un altro autore che mi piace molto; sono rimasto affascinato dal fatto che quando era piccolo, e veniva lasciato solo in casa per lunghi periodi, trascorresse molte ore a camminare per i prati per schiacciare l’erba e fare dei disegni. Questa cosa l’ho trovata veramente affascinante e poi lui è diventato quello che è diventato. Mi piace molto Rothko, forse non si vede dalle mie immagini, ma è di una apparente semplicità e di una forza inarrivabili. Fotografi, direi sicuramente John Goodman, che mi ha insegnato la fotografia interiore che ho poi sviluppato nei miei lavori di performance; Jim Goldberg, che mi ha insegnato come si realizza un libro fotografico. Io però mi sento più legato alle mie origini che sono pittoriche. La macchina fotografica è il mio pennello.
Il tuo rapporto con la luna continua?
Non faccio solo questo ma la mia passione per la luna sarà per sempre.

L’intervista completa è su NPhotography n. 89, in edicola dal 12 Luglio e acquistabile online cliccando qui 

 
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