18 Marzo 2019 di Vanessa Avatar

Con la pubblicazione nel 1956 del suo volume New York il fotografo William Klein (New York, 1928) acquistò una fama che lo ha accompagnato fino ai nostri giorni. Il volume sulla più importante città americana viene concepito nel luogo e nel momento giusto, quando, dopo la Seconda Guerra Mondiale, New York diventa a tutti gli effetti centro del mondo, dove tutto accade, dall’economia finanziaria con il predominio di Wall Street, alla grande politica internazionale con la sede dell’ONU, al mondo dell’arte. Spodestando Parigi, l’arte sposta il suo nuovo centro nella Grande Mela dove, al ritmo del Jazz e del nascente Rock and Roll, si impone non solo dal punto di vista del mercato ma, con le novità di un’arte antirealistica, come uno strumento di predominio culturale del capitalismo a fronte dello stantio realismo socialista propagandato dall’altra parte della cortina di ferro. Un paio di anni dopo viene pubblicato un altro famoso libro fotografico, quel The Americans, di Robert Frank, che avrebbe segnato una tappa fondamentale nella trasformazione del linguaggio reportagistico; New York di Klein, invece, propone non soltanto un rinnovamento del linguaggio ma anche una rivoluzione nell’impostazione grafica. Le dinamiche, a volte disarticolate, sbilanciate, deformate dal grandangolo nelle fotografie di Klein compongono il volume secondo un ritmo che ricorda appunto certe improvvisazioni jazz: fotografie stampate al vivo – cioè senza i bordi bianchi della pagina – formati diversi, a volte grandi come doppie pagine, a volte distribuite in sequenze irregolari. Il contrario insomma di quello che normalmente era l’impaginato di un libro di fotografie, incluso lo stesso The Americans, con le immagini riprodotte una dopo l’altra dentro una costante gabbia tipografica che aveva nel bordo bianco su tutti i lati il limite contenitivo, la cornice della fotografia. Il volume ovviamente fece scalpore e dopo la sua pubblicazione divenne un nuovo modello cui si rivolsero molti altri fotografi in tutto il mondo. Lo stesso Klein rimase in un certo senso travolto dal successo del suo lavoro su New York, tanto che negli anni immediatamente successivi lo replicò in altre capitali del mondo tra cui Roma (1956), Mosca (1959), Tokio (1962) fino al più recente Parigi+Klein del 2002. Il volume su Mosca, a parte New York, è forse uno dei più interessanti da un punto di vista storico, per diversi motivi, non ultimo il fatto che risultava obiettivamente più complicato realizzare un reportage nell’allora capitale sovietica, dove era difficile accedere e lavorare in libertà. La sua visione di Mosca ripropone, dal punto di vista del linguaggio – né poteva essere diversamente –, lo stile vincente dei volumi precedenti e ne ripropone anche l’impostazione grafica. Il volume è ripartito – ma con titoletti dei capitoli discreti, a piè di pagina – in quattro parti: 1. Moscoviti; 2. Classe privilegiata; 3. Parchi e palazzi; 4. La strada. In apertura c’è una prefazione di Harrison E. Salisbury, corrispondente del New York Time da Mosca negli anni Cinquanta; seguono le descrizioni didascaliche delle fotografie del volume accompagnate da brani tratti da testi di diversi autori e personaggi noti, secondo una modalità che Klein avrebbe sempre seguito. In Italia il volume viene pubblicato nel 1964 da Silvana Editoriale d’Arte, ma evidentemente il mercato biblio-fotografico italiano era ancora molto acerbo se chi scrive queste note poté acquistare il volume alla fine degli anni Settanta, per poche migliaia di lire, accatastato nella gloriosa libreria Remainders della galleria Vittorio Emanuele a Milano.

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