8 Maggio 2019 di Denis Curti Avatar
Nella produzione fotografica di Massimo Vitali si riconosce un percorso in cui la biografia e l’esperienza professionale s’intrecciano con la poesia dell’irrazionale e la fascinazione del caso. Negli anni Sessanta, la carriera foto-giornalistica è già brillantemente avviata nelle file dell’agenzia inglese Report e di quella italiana Grazia Neri, senza però registrare quel grado di soddisfazione che fa amare un mestiere. Quindi, senza mai abbandonare definitivamente la fotografia, inizia l’esperienza del cinema, prima come operatore alla macchina da presa realizzando documentari, pubblicità e qualche fiction e poi, brevemente, come direttore della fotografia. Nei primi anni Novanta, un evento inatteso procura un cambiamento radicale nella prospettiva dell’uomo e del fotografo: il furto della sua preziosa attrezzatura. Dopo lo spiacevole incidente, Massimo Vitali rimane con una sola fotocamera, un banco ottico 20×25, la cui ingombrante struttura avrebbe contribuito a complicare irrimediabilmente il suo rapporto con il reportage. Ed ecco che, spinto da una doppia necessità, tecnica e di ricerca, inizia a vedere nell’utilizzo del grande formato le enormi potenzialità espressive e interpretative dell’osservazione lenta e meditata. In primo luogo, capisce subito che avrebbe dovuto alzare il punto di vista per ottenere l’immagine con la nitidezza e il fuoco desiderati. Realizza, con l’aiuto di un artigiano, un cavalletto speciale molto alto e finalmente riesce a vedere il mondo come aveva sempre desiderato osservarlo. In quel momento anche la percezione del colore inizia a cambiare e assume progressivamente le note tenui e delicate del paesaggio e della sua vitale componente umana.

Massimo Vitali: Una nuova coscienza visiva

Lontano dalle breaking news e dalla cronaca, Massimo Vitali  trova la dimensione ideale del suo pensiero. La posizione elevata del suo punto di vista diventa presto un rifugio, un riparto da cui osservare attentamente il mondo, cercare di comprenderlo e rappresentarlo con la fotografia. «Trovato il luogo, si deve cercare il punto in cui posizionarsi per essere esattamente silenziosi e invisibili. Poi bisogna aspettare. Ma quando dico aspettare, non mi riferisco all’attesa dei fotografi del momento decisivo. Nella vita di tutti i giorni tutti i momenti sono decisivi e al momento stesso privi di spettacolarità. Aspettare significa riempire gli spazi, mettere in contatto gli occhi, creare dei cortocircuiti, ordinare i colori».

<<LE PANORAMICHE PRODOTTE IN SERIE SULLE SPIAGGE E ALTRI CARATTERISTICI LUOGHI D’INCONTRO, COME LE PISCINE E LE DISCOTECHE, RAPPRESENTANO L’EMBLEMA DEI NOSTRI TEMPI: FIUMI DI PERSONE SENZA META, ALLA CONTINUA RICERCA DI NUOVI PUNTI DI RIFERIMENTO>>

Con queste parole è l’autore stesso a svelare la sua rinnovata ispirazione. L’urgenza emotiva dell’attesa, che ordina e chiarisce i pensieri, lo porta progressivamente alle ampie vedute di spiagge, coste e bagnanti per cui è divenuto famoso in tutto il mondo. Per entrare più a fondo nell’opera di Massimo Vitali è necessario esplorare le origini della sua visione e cogliere quei cortocircuiti che ne definiscono la poetica e l’identità. Nelle sue fotografie, lo sguardo si perde nell’immenso chiarore del mare e del cielo. Qui una folla umana si ferma al sole e, estasiata dalla vista che si estende davanti agli occhi, sembra occupare e contendersi lo spazio circostante. L’immaginario così descritto richiama subito alcuni modelli di rappresentazione su cui l’autore sviluppa l’efficace discorso visivo che lo impegna per tutto l’arco della sua produzione artistica. Tornano alla memoria le cartoline, specie quelle degli anni Ottanta e Novanta, che identificano il paesaggio italiano nello stereotipo di un territorio a tratti pittoresco, ma sempre uguale a se stesso. L’immagine commerciale e standardizzata del territorio, quella che, per intenderci, mostrava al grande pubblico (dentro e fuori i confini nazionali) il nuovo volto del Paese, offre a Massimo Vitali l’occasione per riflettere sul cambiamento in atto sul nostro paesaggio e sulle nostre abitudini sociali. I riferimenti dell’autore sono quelli conosciuti ai più: la scuola di Düsseldorf e la scuola italiana del paesaggio, già punti di riferimento per l’indagine fotografica dell’era post-industriale.
 
 

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