16 Marzo 2020 di Redazione Redazione
I progetti di Lorenzo Castore sono costellazioni di una mappatura fotografica che racconta di storie intime, viscerali e potenti. A volte lo fa rappresentando vite altrui, altre, mettendo davanti all’obiettivo se stesso e la sua storia personale. I suoi lavori si innestano insieme secondo uno stile riconoscibile, ma non stereotipato, delicato, ma primordiale per condurre chi guarda in un mondo che non è solo quello altrui, ma anche il proprio.
Quest’anno è uscito il tuo ultimo libro “1994-2001 | A Beginning”. Un progetto titanico pubblicato dalla casa editrice L’Artiere. «È il primo di una serie di volumi che tratteranno diversi periodi di una vita, la mia. L’inizio è datato 1994, l’anno in cui ho scattato la prima fotografia che ancora mi porto dietro, e continuerà per tutta la mia vita. I libri usciranno progressivamente. Il secondo, 2001-2007 | Lacking and longing, si concentrerà sugli anni dal 2001 al 2007, il terzo dal 2007 al 2012, il quarto dal 2012 a chissà quando, e così via. L’idea è di strutturare questi volumi non come dei diari, ma come una specie di autobiografia letteraria a capitoli, dove verità e finzione si fondono».
Avete già pensato a un titolo per racchiudere tutti i volumi? «Inizialmente pensavo a Present Tense, ma poi mi è sembrato inutile e ho deciso di lasciarlo senza titolo. Sulla copertina non c’è nemmeno il mio nome, solo le date e l’irregolare linea del tempo disegnata da Eloi Gimeno, il book-designer che ha creato il progetto grafico dell’intera serie. La nostra intenzione è di comunicare nel modo più essenziale possibile».

Walter, Firenze, Italia 1997 © Lorenzo Castore. Walter, mio padre, bello come Michel Piccoli, nebuloso, distante e un po’ triste.


Nell’intero progetto la tua crescita personale si interseca e si fonde con la tua crescita come fotografo. Come la fotografia delinea la tua persona? «Nel primo volume, come anche in quelli che seguiranno, parlo della mia storia perché è quella che conosco meglio, ma vorrei che si andasse oltre. Una storia segnata da tappe di crescita ed evoluzione, come, in modi diversi, capita a tutti. Per questo ogni libro parla di un periodo delimitato e ha un sottotitolo che in qualche modo lo definisce. La fotografia è lo strumento di rappresentazione di questo percorso, ne è parte integrante. Faccio fotografie da quando ho vent’anni e da quel momento la mia crescita è stata strettamente connessa a quest’arte. Spero che 1994-2001 | A Beginning trasmetta innocenza. È un inizio, appunto. Un ragazzo cerca di diventare un giovane uomo. La struttura è semplice, tutto è fotografato in 35 mm. Le immagini sono abbastanza classiche. Non sapevo cosa facevo, ma avevo urgente bisogno di trovare un modo per stare nel mondo, per esprimermi e comunicare. Nel secondo volume invece, 2001-2007 | Lacking and longing, l’innocenza si perde e si avverte una contaminazione. La fotografia diventerà più presente: oltre all’utilizzo di diverse macchine fotografiche, si leggeranno più chiaramente le influenze, le fonti d’ispirazione, una maggiore coscienza del mezzo. Il terzo invece, 2007-2012, si occuperà del quotidiano e avrà un percorso più lineare».

Strutturare questo progetto per te ha significato anche dare un ordine preciso al tuo archivio o, comunque, a quella parte dell’archivio che riguarda la tua vita privata. È stato come stare davanti allo specchio? Cosa ha innescato questo processo? «Purtroppo, ho avuto delle morti importanti nella mia vita, tra cui soprattutto quella del mio amico Giorgio – era la fine del 2011 –. Eravamo più che fratelli. Questo grave lutto mi ha fatto considerare la mortalità e mi ha spinto a ordinare il mio vasto e disordinato archivio. Non potevo continuare a mettere da parte, dovevo prendermi la responsabilità di dare una voce alle mie visioni. In questo modo, attraverso la fotografia, cerco di fregare il tempo – che è la mia ossessione impossibile –, anche se poi alla fine vince sempre lui. In ogni caso non sono qui per vincere, ma per vivere la mia avventura».
Perché hai scelto la fotografia come medium? «La mia espressione artistica preferita è la musica. Se avessi potuto decidere in quale modo creativo comunicare avrei voluto suonare il pianoforte o far parte di un gruppo punk. Poi, tra quello che uno vorrebbe fare e quello che poi effettivamente è in grado di fare c’è una differenza. Mi sembrava di non aver nessun talento per esprimermi attraverso la musica e un giorno per caso, tanti anni fa, sono capitato alla mostra Exils di Koudelka e la fotografia è inaspettatamente entrata nella mia vita».
Chi sono i tuoi riferimenti fotografici? «Sicuramente Josef Koudelka, che mi ha fatto considerare la fotografia come qualcosa di nuovo e sorprendente, mostrandomi la possibilità di raffigurare la realtà non solo per quello che sembra. Poi August Sander, Robert Frank, Diane Arbus, Walker Evans, Christer Strömholm e Anders Petersen».

Lorenzo Calore

Lorenzo Castore

© Matteo Alessandri


Fiorentino classe 1973, la sua opera, radicalmente intrecciata all’esperienza personale, è caratterizzata da progetti di lungo termine che hanno come tema principale il quotidiano, la memoria e la relazione tra le piccole storie individuali, il presente e la storia. Ha esposto in Italia e all’estero. Tiene regolarmente workshops in tutto il mondo dal 2003. Ha pubblicato sei libri monografici: Nero(2004), Paradiso (2006), Ultimo Domicilio (2015), Ewa & Piotr – Si vis pacem, para bellum (2018), Land (2019), 1994-2001/ A Beginning (2019). Ha realizzato due film brevi: No peace without war, diretto con Adam Grossman Cohen (2012) e Casarola (2015).
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Intervista di Francesca Orsi

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