9 Febbraio 2019 di Elisabetta Agrati Elisabetta Agrati

Baldelli, Grassani, Monteleone

In occasione dell’undicesima edizione dei Sony World Photography Awards, Sony ha proposto tre serate di approfondimento aperte al pubblico (presso gli spazi di Open a Milano) dal titolo “Fotografare il domani. Progettualità, etica e bellezza” che hanno visto protagonisti i Sony Digital Imaging Ambassador, gli attuali dieci fotografi professionisti selezionati per l’Italia nell’ambito del programma Sony Global Imaging Ambassadors. Con loro, Denis Curti, curatore dell’edizione italiana della mostra, ha affrontato diversi temi legati alla fotografia, indagandone gli aspetti fondamentali. Il talk conclusivo ha visto la partecipazione di Luigi Baldelli, Alessandro Grassani e Davide Monteleone con i quali Denis Curti ha dialogato intorno al tema del fotogiornalismo, professione, o forse “vocazione”, che oggi propone ai fotografi nuove sfide, ma anche inedite opportunità.

Intervista a Baldelli, Grassani, Monteleone

La discussione prende il via dal titolo dell’incontro, “Fotografare il domani”, quasi un ossimoro, come sottolinea il moderatore, perché la fotografia ha una costante aderenza alla realtà, anche se spesso ai fotografi viene chiesto di raccontare il futuro. Come si conciliano presente e futuro, attualità e domani, nel lavoro di un fotogiornalista? «Raccontare il futuro è praticamente impossibile – esordisce Luigi Baldelli. Quando ti viene chiesto di raccontare una storia, è importante cercare di raccontarla nel miglior modo possibile nel presente. Questo è ciò che va fatto, secondo me, nel nostro mestiere. Ma bisogna sempre avere un occhio rivolto al domani, capire come questa storia sarà utilizzata o manipolata». Sul rapporto tra fotografia e futuro interviene anche Alessandro Grassani: «Quando ho iniziato a studiare fotografia, sono rimasto colpito dallo slogan con cui Henry Luce lanciò la rivista LIFE nel 1936: “Vedere la vita, vedere il mondo, essere testimoni dei grandi eventi”. Per me la fotografia aveva una forte attinenza al presente, voleva dire raccontare quello che succedeva. Con il passare del tempo, con questa globalizzazione dell’immagine che fa sì che tutti possano vedere tutto, fotografare tutto, condividere immediatamente in Rete ciò che hanno visto, ho capito che essere fotografi significa interpretare il presente per raccontare alcuni aspetti del futuro. Questa è la mia idea di fotografia oggi: provare il più possibile a interpretare il presente, perché partiamo da ciò che è reale, da quello che succede oggi, cercando di darne un senso. Per essere testimoni del nostro mondo dobbiamo avere la capacità di aprire una finestra sul futuro». «Immagino la fotografia come una concatenazione di eventi che si manifestano in tempi diversi – è il pensiero di Davide Monteleone. Il primo evento è quello del fotografo che va da qualche parte, che incontra qualcuno, qualcosa. Poi c’è il secondo momento, quello in cui il fotografo ha una relazione diretta con l’opera che ha prodotto, con la fotografia che ha immaginato. Questo diventa anche il momento in cui l’autore sceglie cosa divulgare e cosa tralasciare di quanto ha prodotto. Il terzo evento è la relazione che il pubblico ha con la fotografia e che riconduce all’evento iniziale. La fotografia rappresenta, di fatto, nello stesso momento tre tempi diversi. Il passato, cioè il momento in cui è stata scattata, il presente, il momento in cui è vista e scelta, e il futuro, nel senso che la fotografia diventa in qualche modo memoria del passato e simbologia per il futuro».

© Alessandro Grassani


Baldelli, Grassani, Monteleone: Oggi, i fotografi sono chiamati a schierarsi, a prendere posizione, a dire come la pensano… È davvero così?
«In una guerra si deve odiare qualcuno oppure amare qualcuno; è necessario avere una posizione oppure non si può capire ciò che succede». Denis Curti prende spunto da questa affermazione di Robert Capa per lanciare una provocazione: oggi, i fotografi sono chiamati a schierarsi, a prendere posizione, a dire come la pensano… È davvero così? E come si fa a schierarsi attraverso un linguaggio ambiguo come quello della fotografia? Secondo Luigi Baldelli, la fotografia è in qualche modo una forma di politica: «Quando si scatta una fotografia, non si assume solo una posizione fisica, controsole o a favore di luce, ma si prende una posizione ben precisa rispetto a quello che si vuole raccontare. Se vai a Kabul quando ci sono i talebani, non puoi stare dalla loro parte. Se vai a fotografarli lo fai solo per denunciare, almeno questa è stata la mia scelta». «Trovo quasi ovvio che la fotografia sia un linguaggio personale, soggettivo – gli fa eco Alessandro Grassani. Quando un fotografo prende in mano la macchina fotografica, comunque vada esprime un punto di vista personale. Il fotografo racconta ciò che vede sulla base delle sue conoscenze, della sua esperienza di vita, interpreta la realtà per restituire un parere personale».Oggi, dunque, i fotografi sono chiamati a interpretare ciò che fotografano, a restituire attraverso l’obiettivo il loro personale punto di vista sulla realtà. Un punto di vista che, sempre più spesso, passa attraverso non un singolo scatto, ma una serie di immagini. A emergere sono le storie, i progetti, che possono tenere impegnati i fotografi anche per mesi o anni. Torna, allora, preponderante il tema della progettualità. A prendere la parola su questo particolare aspetto è Davide Monteleone: «Ho detto qualche tempo fa che si sta profilando una generazione di “fotografi pensanti”. Quando ho cominciato a fare questa professione, mi sono imbattuto in una frase che inizialmente avevo attribuito a Ferdinando Scianna, scoprendo poi che era di Sciascia che a sua volta l’aveva rubata a Čechov, e dice che “i giornalisti vanno da qualche parte e appena ci capiscono qualcosa vanno da un’altra parte”. Mi ha sempre inquietato questa affermazione perché penso che sia un segno di grande superficialità. Però, per tanti anni, per tante generazioni – senza nulla togliere ai grandi maestri che abbiamo citato – il ruolo del fotografo è stato confinato a quello di un operatore che serviva le agende politiche e le necessità di Stati, giornali e, in generale, del potere. Da qualche anno, invece, soprattutto nelle generazioni più giovani, si inizia a comprendere che il fotografo non fa più solo le foto, fa molte altre cose. Tra le prime, pensa. Le immagini non sono semplicemente il risultato di un “clic”, ma appartengono a un processo di pensiero, di valutazione, di schieramento. Il lavoro non è più quello di andare da qualche parte, capirci qualcosa e andare da un’altra parte, bensì quello di studiare, di capire che cosa si vuole fare, come lo si vuole raccontare e a chi ci si vuole rivolgere». Altro tema che affiora nel corso della discussione è legato al modo di porsi dei fotografi verso un mondo dell’editoria che è sempre più in crisi e nel quale le opportunità e gli spazi si restringono. Questo impone ai fotografi di cercare altrove opportunità e ambiti, per esempio nelle mostre e nei festival di fotografia, di diversificare il proprio lavoro per adeguarsi a dinamiche in continua evoluzione. Secondo Alessandro Grassani, ci sono diversi aspetti da tenere in considerazione in questo senso: «Uno riguarda il linguaggio contemporaneo, che sta cambiando da descrittivo a evocativo. Questo, in un momento di crisi dell’editoria, facilita il fotografo documentarista a rivolgersi verso altri ambiti non propriamente editoriali. Sotto il profilo del linguaggio, il lavoro del fotografo oggi si presta maggiormente a dialogare con altri mercati come le mostre e le ONG». Dunque, si interroga Denis Curti, tutto ciò impone ai fotografi di avere una produzione adeguata a questo sdoppiamento, a questa necessità di rivolgersi a mercati diversi? «È una domanda difficile – riprende la parola Alessandro Grassani – perché non so se sceglierei una storia per la sua capacità di dialogare con diversi mercati. Poi immagino che tutti noi facciamo qualche calcolo prima di iniziare un progetto, perché è chiaro che un progetto ha bisogno di finanziamenti. Non si può però prescindere dalla storia che si vuole raccontare, si parte da quello e poi si va avanti, si vede se la storia è destinata a sopravvivere o se bisogna abbandonarla perché non trova spazio». Parole, dunque, punteggiate da una certa amarezza o, forse, dalla disillusione. Ma ciò che non viene meno in questi tre fotografi, e in tanti altri reporter impegnati in questo difficile mestiere, è la passione per le storie, la capacità di trovare in ogni aspetto della realtà qualcosa che valga la pena di essere raccontato. E allora, finché ci sarà questo innamoramento, finché emergerà la bellezza di una storia, di un volto, di un’emozione, allora ci sarà sempre una ragione valida per premere il tasto della macchina fotografica, per intraprendere un nuovo progetto che possa arricchire chi lo fa e chi lo ammira.

Un gruppo di donne in un campo profughi in Somaliland, 2017. © Luigi Baldelli


Dicko Hdiana, allevatore della Costa D’Avorio gravemente ferito durante gli scontri del 2016 tra le comunità di allevatori e agricoltori.

Dicko Hdiana, allevatore della Costa D’Avorio
gravemente ferito durante gli scontri del 2016
tra le comunità di allevatori e agricoltori. © Alessandro Grassani


© Davide Monteleone

Russia, Novocherkask 2007 © Davide Monteleone

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