20 Aprile 2020 di Redazione Redazione
Vorrei girare questa domanda a don Giuseppe Corbari, parroco di Robbiano in Brianza, che, con disciplina e con il cuore stretto, nei giorni del Covid19, ha officiato la messa in streaming nella chiesona deserta. Allora ha chiesto ai fedeli di mandargli un loro ritratto, uno ciascuno. Voleva vederli in faccia come ogni domenica. Con un piccolo sforzo in più avrebbe potuto farlo anche online, in videoconferenza benedetta. Invece ha stampato quelle fotografie, e ha messo a sedere ogni stampa al suo posto, sulle seggiole della navata. E ha detto messa così: a un’assemblea che sembrava un album di famiglia disseminato. Ad Avvenire, don Giovanni ha spiegato che voleva produrre «un segno tangibile di vicinanza, in tempi in cui l’isolamento per la pandemia ci porta a riscoprire i legami sociali, forzatamente a distanza». Ora, io credo che don Giovanni abbia scoperto sulla fotografia una cosa che sapevamo già e una che forse c’era già, ma abbiamo capito solo adesso. La cosa che sapevamo già è che le fotografie, da quando esistono, sono formidabili sostituti di presenza. Magici pupazzi voodoo che ci trasportano quasi col corpo lontano da noi: chiedere alle famiglie di emigranti separate dagli oceani quanto fosse vera questa cosa. La cosa che non sapevamo di sapere è che, per fare questo, le fotografie devono occupare uno spazio. Abbiamo pensato che lo potessero fare lo stesso anche quando abbiamo cominciato a mandarle in giro, anziché in buste di carta, in pacchetti di byte. In qualche modo ha funzionato: abbiamo inventato una relazione umana nuova, la vicinanza a distanza. Ma ha funzionato in un modo diverso dal previsto. I nostri selfie hanno sostituito le parole del dialogo, sono diventati un vocabolario che sa dire cose che non sappiamo esprimere a parole. Ma non hanno sostituito la nostra presenza fisica nel mondo. Ci siamo accorti tutti, nella reclusione della quarantena sociale, che una fotina WhatsApp non sedava il bisogno di un abbraccio, di un bacio. Perché le fotografie ci connettono, ma non ci rimpiazzano. Don Giuseppe ha fatto accomodare sulle panche non sostituti, ma rimpianti di persone. Dando loro un posto nello spazio fisico, ne ha mostrato il vuoto. Inconsapevole socio-semiologo, ci ha detto che dobbiamo dare alle immagini il posto giusto nello spazio della nostra vita: ci sono, ci saranno, ma non al posto nostro. Perché la fotografia è per l’uomo e non l’uomo per la fotografia.
Michele Smargiassi, Giornalista 

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